C’è bisogno di un chiarimento tra Ue e Stati Uniti. Sarebbe opportuno che questo fosse impostato dall’Italia perché così il chiarimento stesso avrebbe un profilo, pur eurocompatibile, a favore della convergenza euroamericana e non contrario, come potrebbe succedere se a proporlo fossero la Francia o la Germania. Qualcuno potrebbe ironizzare sull’esistenza di un pensiero (geo)politico italiano e di una politica capace di trasformarlo in azione, ma in realtà il primo è sempre più evoluto e la politica, a destra e a sinistra (meno), sta iniziando a prendere più consistenza, tendenza spinta dall’”effetto Draghi”. In tale effetto va incluso un maggiore attivismo italiano nell’Ue e in generale. Per esempio, Mario Draghi sta cercando di esercitarlo come presidente del G20. Ma è altrettanto urgente, e correlata con il G20 stesso, una migliore strutturazione del bilaterale Ue-Usa nonché del G7.
Quali i punti di chiarimento? Chi scrive ne presenta i principali, ricordando un’esperienza personale. Nel 2007 presentò presso alcuni think tank statunitensi il libro The Grand Allliance (versione italiana: “La Grande Alleanza”, Angeli, 2006) dove era centrale la sostituzione della Pax Americana con una Nova Pax. L’America sarebbe rimasta leader delle democrazie, ma dando più spazio agli alleati. Nelle presentazioni – in alcune erano presenti politici repubblicani e democratici centristi - lo scrivente, dopo una prima reazione fredda, riuscì a far ragionare i convenuti su una contraddizione: da un lato la nuova dottrina dell’interesse nazionale elaborata dall’Amministrazione Bush (Condoleezza Rice, Foreign Affairs, 2000) si basava sull’affidare più responsabilità ordinative regionali agli alleati, lasciando all’America il ruolo di sostegno “ombrello” (a parte ingaggi di interesse nazionale vitale, come successo dopo il settembre 2001), ma dall’altro la struttura dell’alleanza restava dominata dall’unilateralismo statunitense, indebolendola. Fu riconosciuto che il problema ci fosse. E il problema c’è ancora perché l’Amministrazione Obama (2008-16) teorizzò il “lead from behind” (guidare da dietro) che è un altro nome per la dottrina repubblicana della prevalenza dell’interesse nazionale in forma di unilateralismo, quella Trump esasperò l’americanismo e disconobbe trattati già firmati con alleati, e quella Biden, nonostante le dichiarazioni di re-ingaggio globale, la sta praticando con sostanziale indifferenza verso gli alleati. In sintesi, questa dovrebbe essere la chiave dei chiarimenti.
Primo: a monte di tutto, a seguito del caso afghano dove il capo nominale dei talebani è stato semi-reclutato dalla Cia nel 2018 e consultato pochi giorni fa, va consolidata la reciproca fiducia tra alleati. In operazioni dove gli alleati sono ingaggiati non si possono nascondere loro dettagli sensibili. Le relazioni di intelligence tra alleati appaiono ottime, ma Boris Johnson ha segnalato un gap informativo nel teatro afghano e ciò sostiene la necessità di una conferma dell’obbligo di condivisione. Non totale, ovviamente, ma nei casi in cui gli alleati svolgono missioni delicate e concordate con l’America, come per esempio quelle di Italia (prossima anche all’ingaggio in Irak) e Francia in Africa.
Secondo: un’alleanza è solida se ha come base un mercato comune, per motivi di co-interessenza sostanziale. Pertanto la Nato andrebbe consolidata attraverso un accordo economico Usa-Ue. Potrebbe iniziare come semplice accordo bilaterale di libero scambio per poi evolvere verso un mercato integrato delle democrazie, nei decenni, dove la convergenza euroamericana sarebbe il magnete per aggregare Giappone, Regno Unito, nonché Australia, pian piano l’India e altri.
Terzo: l’America tende a costruire due alleanze separate in Eurasia e nel Pacifico non permettendo loro di integrarsi in una sola per timore che gli alleati riducano la libertà di manovra statunitense. Ma se l’America vuole l’Ue come alleata leale dovrebbe condividere con essa la politica di contenimento-condizionamento della Cina. Infatti gli alleati temono che, alla fine, America e Cina possano convergere spartendosi il mondo, comprimendo gli interessi europei. E’ un rischio remoto, ma viste le sorprese frequenti fatte da Washington c’è bisogno di una rassicurazione concreta, per esempio quella detta nel punto precedente.
In conclusione, se l’America vuole mantenere la leadership nel mondo delle democrazie, e grazie alla loro convergenza quella globale, essendo diventata troppo piccola per esercitarla da sola, deve condividere di più con gli alleati linea strategica, informazioni, interessi e mercato. Dura per gli americani rinunciare al loro unilateralismo? Nel chiarimento si dovrà graduare la pressione perché l’America non è pronta a condivisioni in quanto ancorata all’eccezionalismo ed esposta all’isolazionismo, ma enfatizzando che se l’America vuole restare potenza globale dovrà raffinare la convergenza con gli alleati. Questo la politica americana lo capirebbe se fosse detto con franchezza da alleati credibili. E gli altri europei? Cresce in tutte le democrazie de-bellicizzate e in crisi sul piano della ricchezza diffusa la consapevolezza che ogni democrazia ha bisogno delle altre, ma tale “multilateralismo selettivo” non è ancora linguaggio politico nell’alleanza per l’abitudine a perseguire l’interesse nazionale in forma solitaria e non composta con gli alleati. Provi l’Italia a lanciare tale metodo: sarà utile a noi, all’Ue e all’America