Qualcuno deve iniziare a proporre un pensiero critico, e alternativo, in materia di ecopolitica perché quella in atto nell’Ue appare illusoria, inefficace e controproducente.
Se è vero che l’anidride carbonica (CO2) è la principale responsabile del riscaldamento del pianeta, allora la cosa più realistica e razionale da fare è puntare tutte le risorse sia per catturarla in depositi nel sottosuolo (esperimenti in atto) sia, soprattutto, per trasformarla via catalisi, o altri metodi, in carbonio solido, che è un materiale eccezionale per costruire sia superbatterie sia (nano)strutture e infrastrutture non metalliche. Così quello che è un problema diverrebbe una risorsa (miliardi di tonnellate) rendendo produttivo l’investimento in decarbonizzazione dell’atmosfera. Ma la ricerca per realizzare questa opzione è rallentata per la prevalenza, nell’Ue, di linguaggi ecolimitativi che puntano, invece, ad eliminare le emissioni di CO2. Ciò è irrazionale perché ha un’alta probabilità sia di fallire sul piano globale sia di produrre shock industriali e occupazionali nell’Ue, qualora l’ecopolitica fantasiosa proposta dalla Commissione fosse confermata. La probabilità che venga corretta in sede di Consiglio e Parlamento europei è elevata, ma la modifica non è certa. La Germania vuole l’abolizione dei motori endotermici entro il 2030 perché è in vantaggio sulle auto elettriche (Audi e Mercedes stanno investendo decine di miliardi che altri produttori, a parte la Volvo con proprietà cinese, non hanno). Inoltre si è instaurato un ecofanatismo che può dirsi una variazione in senso anti-industriale della teoria dei limiti allo sviluppo. Mentre sul primo tema si può trovare un compromesso, sul secondo pesa l’ondata di consenso a favore dell’ambientalismo irrazionale.
Per decenni ho insegnato alla University of Georgia, vicino ad Atlanta, dove negli anni ’30 dello scorso secolo è nata l’ecologia moderna. Questa università richiedeva ai docenti di tutte le discipline di inserire nei loro insegnamenti una “Environmental Literacy” (educazione ambientale). Io insegnavo “scenari globali” – continuo a farlo all’Università Marconi - e ciò attirava gli studenti più ecosensibili. Mi sono trovato a rispondere agli “ecolimitisti” – tra salvare un bosco e una fabbrica scegli il primo – alle “ecofemministe” (la natura è un unicum, Gaia, ed è femmina sfruttata dal tecnocapitalismo a cui bisogna ribellarsi anche con violenza - agli “ecoconservatori” che, in sostanza, predicavano la riduzione della biomassa antropica per rendere il residuo armonizzabile con la natura. Tra questi, alcuni erano dialoganti, per esempio gli aderenti a Green Peace, altri alla ricerca di come ridurre gli esseri umani, alcuni prevedendo anche soluzioni di sterminio selettivo, pochi, ma a contatto con le scienze bioingegneristiche emergenti (il corso era interdipartimentale). Mi accorsi che tutti questi avevano una certa propensione alla irrazionalità e rigidità. Tentai di farli ragionare e misurai il tentativo somministrando un questionario all’inizio e alla fine del corso: ebbi la sensazione di aver avuto un certo successo. Temi, per esempio il “Full Cost Principle”: l’economia standard non considera i costi dello sfruttamento della natura e quindi non vede il punto dove sarà distrutta dall’esaurimento delle risorse naturali. Vero. Cosa fare? La mia proposta fu quella di modificare l’ambiente via nuove tecnologie per fargli sostenere più stress antropico: l’ecologia artificiale. In sintesi, nel conflitto tra ambiente e sviluppo modificare il primo per non compromettere il secondo. Nel questionario detto, alla fine, diversamente da quello iniziale, la maggioranza della classe si diceva d’accordo con l’ecorealismo, restando in minoranza gli ecofondamentalisti, ma questi confessando che la loro scelta era di tipo religioso. L’ambientalismo estremo, infatti, è una religione-ideologia. Sia input per gli specialisti in psicologia sociale.
Tornando alla miglior ecopolitica, mi sento di insistere sulla conversione dell’anidride carbonica in carbonio solido: se il mondo non potrà decarbonizzare in fretta, lo faccia chi ha più soldi e tecnologia, europei ed americani, prendendo un vantaggio sui nuovi materiali a base di carbonio. Così eviteremo problemi geopolitici e shock industriali interni.
Ma c’è un ecotema che mi cruccia. Il cambiamento climatico ad alto potenziale catastrofico, bombe d’acqua e siccità, è in atto. Ciò imporrebbe un ecoadattamento per ridurre la vulnerabilità oggi e non a fine secolo: il tema ecoadattivo è visto come marginale, tutta l’ecosicurezza affidata solo al mito di sostituire presto il petrolio. Invece bisognerebbe oggi spendere per sistemi di allarme anticipato, infrastrutture di contenimento, ecc. Per le siccità, programma straordinario di desalinizzatori. Inoltre, per le temperature serve tantissima energia: solo il nucleare potrà dare tutta l’energia necessaria a basso costo. E l’agricoltura? Già oggi molta di questa richiederebbe ingegneria genetica per fare resistere i vegetali allo stress climatico. In sintesi, la soluzione agli ecoproblemi è la tecnologia e quella al riguardo del consenso implica una grande chiarimento culturale e politico: dobbiamo cambiare l’ambiente per renderlo sostenibile agli umani e non cambiare gli umani per salvare l’ambiente stesso. Ambizione antropica eccessiva? Se fai figli devi averla. Propongo di mettere in discussione l’ecoconformismo ideologico e acritico: confrontiamoci, tutti noi, con l’ecorealismo.