Da anni tengo in evidenza sulla scrivania la lettera che mi scrisse la madre di un mio ex-studente, ambedue residenti in uno Stato con regime autoritario, quando insegnavo negli Stati Uniti: ha insegnato a mio figlio la libertà, ma non come gestirla e comunicarla in un ambiente ostile quando è tornato a casa. Fu imprigionato, torturato e ucciso. Mi sento in colpa non per il contenuto dell’insegnamento – nel caso un modello di sviluppo/progresso basato sulla relazione reciprocamente amplificante tra libertà, capitale e tecnica dove se la prima non c’era lo sviluppo stesso non era consolidabile – ma per non aver fatto abbastanza per affermare il valore della democrazia allo scopo di contribuire a farlo diventare uno standard mondiale capace di limitare la repressione nei regimi autoritari. Avrei potuto? Nel 2006 pubblicai il libro “Democrazia attiva” dove tentai un calcolo del costo dell’assenza di democrazia, quindi della sua utilità, per far riflettere criticamente i tanti colleghi economisti che predicavano “sviluppo prima, democrazia eventualmente dopo, non necessaria” e politologi che affermavano, chi l’impossibilità, chi la non necessità, di democratizzare le nazioni del pianeta. Puntai a coinvolgere soggetti rilevanti in molte democrazie per creare un gruppo di pressione capace di far riaprire la Carta dell’Onu con lo scopo di aggiungere lo “standard democratico” al principio di rispetto delle sovranità. Ma nel 2007 dovetti annotare che Pechino aveva conquistato il voto di tanti Stati emergenti ed autoritari promettendo protezione, armi e denaro personale ai dittatori in cambio di appalti per le aziende cinesi, materie prime a sconto e, appunto, il loro voto all’Onu: le democrazie erano in (quasi) minoranza nel mondo. Per questo pubblicai il libro “The Grand Alliance” (2007) che promuoveva l’alleanza globale delle democrazie, con un substrato di mercato ad integrazione crescente ed una conduzione G7 allargata. E si accese una luce di speranza quando alcuni miei ex studenti americani, interagendo con lo staff del senatore repubblicano John McCain impegnato nel 2008 nella campagna per le presidenziali, riuscirono a mettere nel suo programma la creazione di una “Lega delle democrazie”. Ma McCain perse contro Barack Obama. Ora finalmente tale linguaggio è diventato progetto politico, pur solo abbozzato, dell’amministrazione Biden. Ma parlando con alti funzionari dei governi del G7 sono stato avvertito che non vi sarà un aumento della pressione democratizzante verso Cina, Russia, Iran, Bielorussia e tanti altri emergenti per motivi di realismo politico. Da ciò ho derivato l’ipotesi che il complesso degli Stati democratici non aiuterà i combattenti per la libertà nelle nazioni autoritarie i cui regimi li stanno massacrando: marcherà il punto con franchezza come ha dichiarato Mario Draghi in coro con gli altri G7, ma appare improbabile – spero di sbagliare – un aiuto diretto a chi è oggetto di repressione. Evidentemente le democrazie non vogliono rischiare frizioni conflittuali con i regimi autoritari pur affermando i valori democratici e ponendo come condizioni di “confine” il rispetto dei diritti umani basici.
Capisco il realismo politico, ma mi chiedo: possiamo lasciare soli i combattenti per la libertà? Non possiamo anche per nostra utilità perché il mancato attivismo per diffondere la democrazia nel mondo, almeno innestando una tendenza graduale verso lo Stato di diritto e la trasparenza nei casi più impervi, comporta una perdita di forza per la (difficile) manutenzione ed evoluzione continua del modello democratico a casa nostra. La cittadinanza democratica, infatti, è un valore universale ed un obiettivo per la vita dei nostri discendenti: le democrazie tendono a non fare la guerra per la varietà di opinioni al loro interno. In un “discorso dei padri” metterei in priorità il progetto di creare le condizioni affinché in un secolo le 200 nazioni del mondo diventino democrazie, per dare ai figli e ai pronipoti un pianeta meno denso di tragedie di quello frequentato dai nostri genitori e nonni. Pertanto il giovane pro democrazia ucciso silenziosamente a Hong Kong, l’Uiguro incatenato a vita nei Laogai cinesi, ecc., non sono fatti remoti, ma toccano la nostra responsabilità. Cosa possiamo fare? Privatamente, una rete di soccorso internazionale per estrazione di prigionieri. Non ne parlo per non dare info ai regimi. Pubblicamente, dovremmo spingere i nostri governi a fare più pressione condizionante affinché i combattenti per le libertà, almeno, non vengano uccisi nonché chiedere ai media più informazione di dettaglio sulle repressioni. C’è qualcosa di più? Forse chiedere al design italiano di proporre una bandiera della democrazia che possa essere aggiunta a quella di tutte le nazioni democratiche: il complesso delle democrazie è militarmente, finanziariamente ed economicamente molto più forte dell’insieme dei regimi autoritari e per tale motivo può e deve iniziare a salvare vite.
Perché questo articolo ora? Perché Roma deve rivedere il memorandum di intesa che inserisce l’Italia nella Via della seta, unico Paese Nato ad aver firmato un accordo sopra la soglia politica con la Cina autoritaria. Spiace segnalare un grattacapo in più per Draghi, ma bisogna ripristinare la dignità democratica dell’Italia, compromessa da chi ha siglato quell’accordo e che continua perfino ora a difenderlo e volerlo realizzare: gente indegna, lettori vigiliamo.