Il Made in Italy è noto ed apprezzato in tutto il mondo nei settori della moda e cibo, ma è meno noto per le produzioni industriali. Meglio è dire che le produzioni italiane manifatturiere sono ben note e richieste dalle aziende estere, ma nell’opinione del pubblico generale globale non c’è la percezione dell’Italia come potenza industriale di qualità speciale. Mi sono chiesto se comunicare meglio e di più la vocazione all’eccellenza manifatturiera e tecnologica dell’Italia potrebbe essere un moltiplicatore della crescita del nostro sistema. La risposta e sì. E lo segnalo sia alle associazioni industriali private sia al governo affinché faciliti gli investimenti delle aziende piccole e medie sulla riconoscibilità ed affermazione del loro marchio e sull’internazionalizzazione.
Per inciso, è doveroso fare i complimenti a Fincantieri per aver ricevuto, via sua filiale americana, dalla Marina militare statunitense il secondo ordine per costruire una fregata (classe Fremm, modificata) che rende probabile una commessa per altre dieci o più. Inoltre, nell’occasione, Fincantieri ha progettato un cantiere che può costruire in un ambiente chiuso a clima controllato navi di grande tonnellaggio, migliorando molto l’efficienza del processo costruttivo. Così come è doveroso congratularsi con Leonardo (insieme al consorzio missilistico Mbda) per aver inventato un sistema d’arma antimissile che miniaturizza i missili stessi, li rende lanciabili da un cannone, con traiettoria correggibile e relativa elettronica. Bravi, questa qualità è a livello “prime” mondiale. Forse a Israele interesserebbe il prodotto di Leonardo per rinforzare il suo sistema antimissile “Iron Dome”, qualora fosse dimostrato che i proiettili italiani costino meno dei circa 50mila dollari l’uno dei missili antimissile israeliani. Ma ci sono migliaia di piccole aziende che producono (sotto)sistemi di altissima qualità i cui marchi non sono sufficientemente noti.
La prima raccomandazione è raccogliere le storie dei loro successi e trasformarle in opportuna comunicazione. A cosa serve se la maggior parte dei prodotti sono componenti di sistemi poi integrati sotto altri marchi, per lo più all’estero, per esempio gli eccezionali freni Brembo? L’aumento della reputazione generale del sistema italiano sul piano tecnologico aiuterebbe il marketing e gli investimenti esteri (non predatori) verso l’Italia. Per esempio, in un recente webinar, dove partecipavano esperti globali, mi è capitato di segnalare che l’Italia è prima al mondo a livello di “economia circolare” e relative tecniche industriali. Sono rimasto male nel vedere reazioni di sorpresa da parte di molti partecipanti, in particolare asiatici, che si chiedevano, pur con dovuta cortesia: ma l’Italia è così avanzata sul piano tecnologico? Lo è nel settore perché essendo un’economia trasformativa priva di materie prime ha dovuto imparare da tempo a riciclarle e da lì estendere il concetto di riuso. Fortunatamente un collega giapponese ha affermato che lui studia molto attentamente l’Italia su questo e molti altri piani. In telefonata bilaterale l’ho ringraziato e gli ho chiesto cosa stava studiando. L’adattamento del prodotto alle esigenze del cliente, mi ha risposto, dove gli italiani sono maestri. Al che ho rilanciato, scoprendo che era persona di finanza internazionale: sarebbe possibile riconoscere al know how di adattamento un valore equivalente ai moltiplicatori di alta tecnologia? Mi ha risposto: vista la domanda mondiale di sartorializzazioni sarebbe possibile, ma se gli italiani non pubblicizzano questa loro quasi esclusiva capacità industriale che unisce la flessibilità artigianale alla manifattura avanzata, difficilmente il tema sarà promosso da altri. Capito? Abbiamo un enorme potenziale di valore residente, ma non sappiamo collocarlo negli standard internazionali di valorizzazione. In realtà le grandi imprese internazionali lo sanno: per esempio, chi costruisce lo F 35 ha avuto l’informazione che una piccola azienda italiana – e non americana o tedesca o francese – era capace di costruire una componente (nel sistema alare) che non poteva essere processata (per varianza) dalla linea di montaggio standard. In sintesi, l’Italia non produce tanta nuova tecnologia di base (per assurde barriere tra università e imprese), ma è campione mondiale di innovazione e adattamento di un prodotto alle esigenze di un cliente. La giusta strategia, pertanto, oltre a quella di togliere qualsiasi ostacolo alla relazione università-impresa (nonché creare un numero maggiore di politecnici) sarebbe quella di enfatizzare la capacità innovativa e adattiva di tante aziende italiane, creando un “metamarchio” italiano di eccellenza che a sua volta trainerebbe sia lo specifico marchio aziendale sia quello generale territoriale: vuoi un’azienda, per dire, in Indonesia o in India che risolva un problema di adattamento-innovazione con procedure altamente affidabili? Cerca prima in Italia e molto probabilmente lì troverai quello che ti serve.
Che altro effetto avrebbe una politica comunicativa e di “metamarchio” come qui accennata? Attirerebbe più attenzione dal mercato dei capitali, facilitando la quotazione in Borsa di piccole aziende, nel segmento Aim: quasi 2.000, già pronte, cosa che porterebbe Borsa italiana in una tendenza a diventare la più grande d’Europa, con enormi benefici per imprenditori, lavoratori e sistema. Fondi europei bene, ma marketing competitivo globale basato su quello che già c’è molto meglio.