Nel mercato c’è tensione per il timore che il rialzo dell’inflazione costringa le Banche centrali, in particolare europea e statunitense, a svoltare verso una politica monetaria restrittiva che potrebbe compromettere la ripresa. Da un lato, i picchi di inflazione – fino al 4 e 5% spinti dalla ripresa e da alcune anomalie contingenti - osservabili e previsti a breve in America e in alcune aree dell’Ue giustificano tale timore. Dall’altro, ci sono validi motivi per ritenere che questi siano solo temporanei. Infatti sia la Bce sia l’americana Fed hanno fatto intendere un rientro molto graduale, e solo quando la ripresa post-pandemica sarà consolidata, dalle azioni straordinarie, per esempio l’acquisto di titoli di debito pubblico sia per dare liquidità al mercato sia per tenere basso il costo del debito stesso. L’America ha già raggiunto i ritmi di crescita ante-pandemia, ma il recupero dell’occupazione è lento. In Europa la ripresa è forte, ma il livello di crescita del 2019 sarà recuperato solo nel 2022. In sintesi, le Banche centrali preferiscono il rischio (basso) dell’inflazione piuttosto che quello (alto) di interrompere troppo presto il sostegno monetario alla ripresa. Pertanto fino al 2023 il mercato e gli Stati potranno contare su una politica monetaria che resterà espansiva. E poi? Appare probabile una buona situazione dell’economia reale che permetterà il ritorno alla normale politica monetaria con l’inflazione in Europa vicino al 2% tendenziale. Pertanto appare esagerato il timore di inflazione. Tuttavia, l’Italia ad alto debito ha già ora la priorità di contenere il deficit e spenderlo in modi che siano produttivi di crescita per trovarsi in equilibrio finanziario quando il sostegno monetario sarà necessariamente minore.