L’interesse della Nato è allo stesso tempo mantenere la Turchia nel club e condizionarla affinchè rientri nei binari di comportamenti convergenti. Si tratta di una tipica strategia “bastone e carota”, ma non è di facile calibratura.
Apparentemente l’Amministrazione Biden ha preso una posizione più dura verso Ankara di quella tenuta dall’Amministrazione Trump nel passato recente. Questa ha usato il metodo delle trattative riservate e silenziose, ma tale approccio ha fatto percepire a Recep Erdogan che aveva uno spazio di manovra molto ampio per attuare la sua ambizione di potenza neo-ottomana. L’esito è stato l’espansione turca in Libia, la pretesa di avere diritti di esplorazione dei giacimenti sottomarini nel Mediterraneo orientale infischiandosene delle zone di sfruttamento già definite da Egitto, Israele, Cipro e Grecia, l’aumento del sostegno alle fazioni islamiche in Bosnia, Kosovo, Albania e Macedonia del nord, un inserimento turco (indiretto) nella guerra dello Yemen con la scusa di salvaguardare una minuscola comunità turcofona, ma con il vero scopo di posizionare la sua marina all’imboccatura del Mar Rosso e della rotta per Suez, per far sentire la sua presenza potenzialmente dissuasiva all’Arabia saudita e all’Egitto e osservare da vicino i conflitti nel Corno d’Africa che si stanno scaldando. In altre parole, Donald Trump ha lasciato troppa corda libera a Erdogan. Per tale motivo l’America ha perso reputazione con gli alleati. I curdi – eroici combattenti anti Isis - si sono sentiti traditi quando Washington ha lasciato, dopo la sconfitta dello Stato Islamico in Siria orientale ed Iraq, mano quasi libera all’esercito turco per eliminarli. Gli armeni cristiani si sono trovati solo (e poco) protetti dalla Russia e senza tutela statunitense (nonché della debellicizzata Ue) nel conflitto armato contro l’Azerbajan musulmano sostenuto dalle armi turche. L’Italia è stata presa a sberle da Erdogan in Libia per l’indifferenza combinata dell’America e della Germania che ha sempre mantenuto una relazione bilaterale privilegiata e riservata con la Turchia, motivo anche di freno al tentativo francese di calmare Erdogan inviando navi militari nel Mediterraneo orientale. Pertanto l’Amministrazione Biden ha dato priorità al re-ingaggio statunitense nell’area allo scopo di recuperare gli alleati ed influenza. Lo sta facendo con certa indecisione ed ambiguità, tipiche delle Amministrazioni democratiche che sempre oscillano tra atteggiamenti vegetariani e carnivori. Per esempio, ha aperto trattative con l’Iran senza concordarle con il blocco antagonista formato da Israele, Emirati (convergenti dopo lo spettacolare Trattato di Abramo che è un capolavoro della coppia Trump-Mike Pompeo) ed Arabia saudita. Ma appare molto determinata nel condizionare la Turchia.
E’ interessante notare che sul lato della carota usa linguaggi diplomatici favorevoli al dialogo con Erdogan e su quello del bastone non usa minacce riservate (pare) di destabilizzare ancora di più la lira turca e favorire la rivolta popolare interna contro Erdogan stesso, ma applica l’arma morale. Ciò porta a valutare se tale arma – usata anche da Mario Draghi nella questione dopo consultazioni Nato - possa avere efficacia. Prima va precisato che un’Amministrazione del Partito democratico, per legittimare il dialogo con un autocrate, ha bisogno di mostrare fermezza sui principi morali per mantenere consenso nel Congresso. Per questo è stata rispolverata la questione del genocidio per mano turca degli armeni nel 1915. L’America vuole che la Turchia riconosca la colpa sia per poter trattare con Erdogan senza contraccolpi entro il Partito democratico sia per forzare Erdogan stesso ad evitare una demonizzazione da parte delle democrazie con conseguenze economiche. In parte ha funzionato perché Erdogan è stato costretto a fare le condoglianze ai discendenti degli armeni. In parte no perché il leader turco insiste nel sostenere che non fu genocidio, ma guerra civile con massacri da ambedue le parti (una balla). Valutazione: l’arma morale è importante perché legittima la “guerra giusta” e la sinistra statunitense è favorevole alla guerra (se solo aerea e selettiva sul terreno via impiego di truppe speciali), la destra molto meno. Tuttavia, nel caso turco l’obiettivo non è quello di bombardare, ma di forzare una convergenza: quindi l’arma morale è spuntata, mentre, per esempio, ha senso dissuasivo nei confronti di Cina e Russia. Inoltre, per far perdere a Erdogan le prossime elezioni o comunque condizionarlo è meglio non disturbare il nazionalismo turco-islamico, ma peggiorare con mosse adeguate la crisi economica interna della Turchia, pronti ad aiutarne l’inversione se Ankara si conforma alla Nato. Pertanto l’enfasi statunitense sul genocidio armeno sembra un’arma debole. Certo, non è facile trovare quella giusta. Per esempio il business italiano avrebbe perdite rilevanti in caso di peggioramento della crisi turca. D’altra parte, non si può sperare di condizionare la Turchia a conduzione Erdogan senza sostenere con mezzi riservati la crescente opposizione interna (nelle città), far cadere per deprecabile errore qualche bomba sui mercenari, tra l’altro jihadisti, inviati dalla Turchia in Libia, ecc. La riconvergenza della Turchia è certamente un obiettivo primario, ma sarà difficile ottenerlo con mezzi vegetariani contro un carnivoro.