La scorsa settimana il parlamento tedesco ha approvato l’indebitamento condiviso dell’Ue, ma alla condizione che sia una tantum per motivi d’emergenza. La Corte costituzionale tedesca ha accettato un ricorso contro questo provvedimento, sospendendolo. Da tempo la Bundesbank pretende che la Bce limiti e ponga un termine il prima possibile all’acquisto dei debiti nazionali. L’insieme di questi atti significa che il tanto decantato Recovery Fund di circa 200 miliardi per l’Italia, di cui una parte come sovvenzione pura, verrà attivato in ritardo e forse ridotto per riluttanza della Germania (e dei Paesi nordici) e che l’Italia avrà limiti di indebitamento che produrranno un gap tra quello che serve e ciò che sarà possibile. Tale gap già lo si vede nell’impostazione del recente provvedimento governativo in extradeficit: ristori insufficienti (in relazione a quanto viene fatto nei Paesi comparabili) anche se il governo ha tentato di compensare il gap mirandone meglio l’allocazione. Il punto: l’Italia sta limitando l’indebitamento d’emergenza perché non può confidare su un sostegno europeo prolungato. E deve farlo perché l’inflazione tende al rialzo – esportata dalla politica fiscale superespansiva dell’America e dal rialzo tendenziale del prezzo del petrolio – facendo prevedere un aumento del costo del debito. Draghi vede bene questo problema ed ha “sparato” contro la Germania: senza eurobond, senza una (graduale) confederalizzazione dell’Ue che completi l’architettura politica dell’euro, ora incompiuto, il sistema è a rischio di implosione perché non può esistere una moneta senza Stato, cioè una politica monetaria non sostenuta da una fiscale. Vero. Ma è anche vero che la confederalizzazione dell’Ue non ha né avrà sufficiente consenso in Germania. Quindi? Nell’attesa di una soluzione politica bisogna puntare a mantenere un sostegno prolungato della Bce, istituzione dove si vota a maggioranza e la Germania è in minoranza.