Calma. L’accordo sugli investimenti tra Ue e Cina (Cai, Comprehensive Agreement on Investments) siglato il 30 dicembre scorso è solo una bozza di intenti che dovrà essere approvata dal Parlamento europeo e dettagliata nelle sue misure applicative, processo che durerà fino al 2022-23. Pertanto chi è rimasto scandalizzato dal fatto che Ursula von der Leyen, presidente della Commissione e Angela Merkel in veste di presidente di turno dell’Ue, con l’irrituale presenza di Emmanuel Macron, abbiano firmato in videoconferenza con Xi Jinping un accordo che apparentemente offre un grande successo al Partito comunista cinese ed al suo regime autoritario, aggressivo, repressivo, schiavista e bugiardo deve considerare che c’è tutto il tempo per correggerlo nonché rendersi conto che la Germania si è trovata in grande difficoltà. Infatti, al momento, l’accordo è una finzione che evita una restrizione all’export tedesco in Cina da cui dipende una parte rilevante del Pil della Germania (e dell’Italia che fornisce componenti all’industria tedesca). Ma anche una finzione utile a negoziare con gli Stati Uniti. In sintesi, il problema dell’Ue è non riuscire ancora a formulare una strategia di collocamento dell’Ue stessa entro il conflitto tra Cina e America. Merkel lo ha risolto provvisoriamente con una tattica di finzione e rinvio, nonché cerchiobottismo, facendo comunicare al proxy Valdis Dombrowskis che l’accordo con la Cina non impedisce un trattato euroamericano. Ma evidentemente la formulazione di una strategia di collocamento internazionale stabile dell’Ue non è più rinviabile.
Un fatto curioso mostra la difficoltà di Berlino. Merkel ha usato la tattica cinese, codificata da Sun Tsu (L’arte della guerra) nel 500 avanti Cristo, di usare l’estensione del tempo e la finzione per risolvere un problema contingente, mentre Xi ha adottato lo schema (1831) del prussiano Carl von Clausewitz con enfasi sulla massima rapidità – compressione del tempo, blitz - per raggiungere un obiettivo. Pechino, infatti, ha concesso moltissimo, con aperture (nominali) mai fatte prima: niente vincoli alla maggioranza di investitori stranieri in aziende cinesi, limiti alla concorrenza sleale da parte di aziende statali, accessi fluidi al risparmio cinese e al settore delle assicurazioni, rispetto degli standard ambientali (fatto che dovrebbe scatenare l’attenzione degli ambientalisti sul numero di centrali a carbone ancora attive in Cina) e di condizioni eque e non schiavistiche per i lavoratori (cosa che contrasta con molte indagini), ecc. Anche XI è in difficoltà. Deve contrastare l’isolamento della Cina e, soprattutto, un accordo economico forte euroamericano che creerebbe il nucleo imbattibile di un impero e mercato delle democrazie molto più grande e potente del suo. Ha usato una megacarota, ma anche un megabastone: il ricatto di restringere l’export tedesco se l’accordo non fosse stato firmato entro fine 2020 perché voleva chiuderlo prima che Joe Biden entrasse nei pieni poteri (il 20 gennaio). I collaboratori di Biden, infatti, agli inizi di dicembre hanno dato forti segnali di irritazione nei confronti dell’Ue. Berlino li ha rassicurati sul fatto che era una finta per schivare il ricatto? Ha mostrato che la bozza del Cai era molto simile all’accordo “Fase 1” fatto dall’amministrazione Trump con la Cina? Non ci sono dati pubblici, ma è filtrato un intenso dialogo tra collaboratori di Merkel e Biden, la Francia in parte esclusa – motivo del contentino a Macron per farlo apparire nella sigla dell’accordo – gli altri europei inesistenti.
Da questa vicenda emerge che la Germania sta spingendo l’Ue verso un “cerchiobottismo tattico”, cioè un neutralismo mercantilista che, pur diverso da quello eurosovranista post-Nato francese, è posizione ambigua e alla lunga controproducente perché impedirebbe all’Ue di essere attiva nella ricostruzione dell’ordine mondiale, riducendo la forza delle sue nazioni. Qual è, invece, la giusta strategia? Stringere con l’America un accordo economico fortissimo, ravvivando quello militare, eventualmente chiedendo in cambio uno spazio concordato, sotto soglia politica, di relazioni commerciali con la Cina (e Russia) in simmetria con il medesimo spazio a cui l’America, per interessi economici, non vorrà rinunciare. Infatti la guerra tra America e Cina sarà intensa in parecchi settori legati alla superiorità tecnologica e finanziaria, ma pur avendo la forma del conflitto Roma-Cartagine, non potrà essere totale perché il prezzo sarebbe quello di una crisi economica globale. Quindi il punto focale resta quello delle relazioni euroamericane, cioè con chi l’Ue dovrà fare impero. In tale scenario, stabilito come probabile che l’America perseguirà la convergenza con l’Ue, certamente un maggiore attivismo dell’Italia in direzione atlantica favorirebbe una scelta analoga della Germania e un adattamento della Francia. In sintesi, il gioco complesso nel triangolo America-Ue-Cina sta fornendo all’Italia una maggiore rilevanza passiva. Per tale motivo la politica italiana dovrebbe iniziare a pensare in modi che non usa da decenni: trasformare la rilevanza passiva in attiva e individuare un’idea di ordine mondiale a cui contribuire via influenza nell’Ue. Ridicolo pensare che l’Italia disordinata ed eurosubordinata possa prendere una tale postura? Non lo è perché i fatti mostrano che i poteri europei sono in un momento di debolezza che permette, in teoria, all’Italia di poter contare di più. Se almeno parte della politica si sprovincializzasse.