La vittoria di Joe Biden trova contesto in un nuovo conflitto di classe che sta per attualizzarsi in tutte le democrazie: l’alleanza tra élite “globaliane”, che tra l’altro possiedono il più dei media, e sinistra contro il ceto produttivo territoriale per lo più fatto da microimprenditori, agricoltori, artigiani, commercianti, ecc., rappresentato dalla destra. Molti analisti individuano tale conflitto come uno tra città e campagna. Cartograficamente è corretto, ma tale rappresentazione – finalizzata a demonizzare il ceto produttivo sul piano della bassa scolarizzazione e fissare l’idea (sbagliata) che campagne e hinterland siano luoghi arretrati – è superficiale: in realtà c’è un conflitto tra due modi di accesso alla ricchezza. Le élite di mercato (alta tecnologia e finanza) puntano a posizioni monopolistiche o di cartello per le quali hanno bisogno di complicità politiche. Queste sono più facili da trovare a sinistra dove prevale il concetto passivo di “accesso alla ricchezza per diritto” che raccoglie consensi crescenti: minimo salario in cambio di sicurezza e comodità. Pertanto lo scambio tra élite e sinistre è il seguente: ti aiuto a vincere con soldi e informazione orientata e in cambio tu mi aiuti a mantenere o ottenere un privilegio. Tale scambio non è nuovo nella storia, per esempio quello tra aristocrazia e contadini contro i ceti produttivi/borghesi emergenti. Semplificando, il punto è che il ceto produttivo incline a trovare accesso alla ricchezza in modi attivi, accettandone rischi e fatiche, è sempre più sfidato da una crescente massa di passivi sia non poveri sia impoveriti organizzata politicamente dalla sinistra sostenuta strumentalmente da oligarchie economiche sia per fini di vantaggio strumentale sia per non esporsi a dissensi. L’oligarca paga la sinistra assistenzialista affinché il meno abbiente non gli rompa le scatole, compra una squadra di sport, spazi sulla stampa, e recita banalità buoniste e ambientaliste, per altro violate allegramente nelle prassi. Per questo l’individuo attivo e imprenditore è sempre meno rappresentato.
Donald Trump ha intuito che serviva un “Marx di destra” per tutelare e mobilitare il popolo produttivo imprigionato nei territori e in produzioni tradizionali. E’ ricorso al protezionismo per ridurre l’impatto concorrenziale delle produzioni estere e al bastone per costringere gli esportatori stranieri alla reciprocità commerciale simmetrica. Ha poi sfondato l’equilibrio di bilancio per generare superstimoli fiscali allo scopo di aumentare l’occupazione via crescita delle imprese. A modo suo ha colto l’emergenza di un capitalismo di massa in crisi e che nella crisi stessa c’era la parte più attiva dell’America. Ma si è mosso senza teoria e staff strategico adeguati, scegliendo un modo divisivo per cercare consenso che ha indebolito l’appello patriottico. Lo hanno impallinato anche per un errore di tattica. Il Partito democratico ha scelto di far votare più persone anticipatamente per posta, con la scusa dell’epidemia, mobilitando i militanti affinché andassero, casa per casa, per condizionare i votanti (tra cui molti che mai hanno votato). La giusta risposta sarebbe stata quella simmetrica: fare lo stesso perché i repubblicani, pur avendo meno organizzazione sul territorio, possono avvalersi di un numero maggiore di associazioni fiancheggiatrici. Invece i consiglieri e lo staff della campagna elettorale hanno suggerito a Trump di delegittimare in anticipo il voto postale per tentare di annullarlo: tale errore gli è costato l’elezione e non è correggibile perché chi guidava la mano di un anziano, portandogli a casa la spesa omaggio, e gli insegnava a come imbustare correttamente il voto postale non è rilevabile con valore legale. C’è da chiedersi se Trump abbia subito un sabotaggio interno che lo ha portato su una tattica sbagliata o se sia stato un errore suo. Tuttavia, il “trumpismo”, resterà una corrente forte nel Partito repubblicano perché comunque rappresenta, e ha galvanizzato, una classe sociale in forte disagio, metà dell’America.
Permettetemi di sorprendervi: non sono un fan di Trump in quanto repubblicano centrista – in Italia sarebbe un liberale di destra - e perfino faccio parte del club dei globaliani sia per lavoro sia per cultura. Eppure mi inquieta la sconfitta di Trump. Il motivo è che vedo nel crescere delle sinistre, purtroppo più brave delle destre nelle tattiche, e della popolazione passiva nella democrazia statunitense, che è faro e anticipazione per le altre, una futura crisi del capitalismo di massa che è pilastro del progetto democratico. Dal 1993 faccio ricerca sul tema “crisi e rilancio del capitalismo democratico” e sto scrivendo un libro di soluzioni – interne agli Stati, il passaggio ad un welfare di investimento, e internazionali, il mercato globale delle democrazie - con tale titolo. Le soluzioni sono individuabili in teoria, ma l’attuarle implica una compressione delle sinistre sia per evitare che la passività sociale riceva premi sia per attivare leve che sostengano ogni individuo per accedere attivamente alla ricchezza. In ogni nazione, soprattutto in America. La speranza è che i repubblicani tengano il Senato, che ricompattino le ali trumpiana e centrista nella missione di rappresentanza dell’America attiva e che trovino con Biden – democratico centrista – una convergenza sufficiente sia per bloccare la crescente sinistra estrema sia per disciplinare i potentati economici, cosa necessaria per l’efficienza del mercato. E che, pensando anche all’Italia, le destre diventino più furbe.