Il governo dovrebbe smettere di illudere gli italiani che i 209 miliardi stanziati dall’Ue a favore dell’Italia, con erogazione spalmata in anni, bastino da soli a risolvere tutti i problemi dell’economia cumulati nel 2020 e in precedenza. Serve ben di più: modificare le norme che soffocano le piccole e medie imprese e generare nuovi super incentivi alla loro (ri)capitalizzazione e aumento di scala, nonché attivare misure transitorie di assorbimento del danno già subito da migliaia di aziende a causa dei blocchi precauzionali anti covid e che aumenterà per parecchi settori fino al primo trimestre del 2021. Poi, dal secondo, le cose andranno gradualmente meglio sul piano mondiale con una ripresa robusta della domanda globale grazie al probabile effetto vaccino dal terzo trimestre 2021. Ma se l’economia italiana con un modello basato sulla piccola impresa (milioni di aziende a fronte di poche medie e pochissime grandi) non viene sostenuta da misure che rafforzino la piccola impresa stessa, allora il sistema non solo non ripartirà, ma anche perderà circa il 25% della sua attuale scala, generando milioni di nuovi disoccupati.
Perché enfatizzarlo ora con tale intensità d’allarme e non qualche mese fa? Diversi motivi. Si sperava che il governo varasse misure più consistenti per il rafforzamento delle imprese in base a segnali che stava lavorandoci: oggi è chiara l’insufficienza dell’esito, semplificabile come scenario dove dopo la fine delle misure di sostegno a febbraio-marzo c’è il buio. Mario Draghi, qualche giorno fa, ha lanciato un allarme da brivido: è molto elevato il rischio di una grande quantità di “imprese zombie” che a sua volta ne genera uno di insolvenze con impatto destabilizzante sul sistema bancario. Draghi fa intendere una soluzione selettiva, questo il motivo del brivido: si chiudano queste aziende troppo deboli, per lo più piccole, prima che uccidano l’intero sistema. Tanti economisti, tra cui chi scrive, sono insorti invocando l’urgenza, appunto, di rafforzare le piccole imprese e non di abolirle, ma chiedendosi anche cosa avesse veramente in testa lo stimatissimo Draghi. Un’ipotesi è che volesse dare un allarme talmente forte da rendere impossibile al governo ignorarlo. Ma non va escluso che, senza cercare retroscena, Draghi sia convinto che con questi politici non sia possibile salvare il sistema se non amputandolo. Io credo che si possa salvare, ma devo annotare che senza lo shock prodotto da Draghi l’invocazione della priorità di rafforzare la piccola impresa sembrerebbe l’usuale ritornello, inascoltato, da parte dei pro-mercato contrapposto ai portatori della suicida credenza che siano lo Stato e l’assistenzialismo e non il mercato stesso a creare ricchezza. Quindi grazie a Draghi, comunque. Ma il quadro è stato complicato da una dichiarazione da parte di Ignazio Visco, anch’egli stimabile: se le piccole aziende diventassero grandi, allora la loro produttività aumenterebbe del 20%. Io concordo sul fatto che “(troppo) piccolo non è bello”, ma Visco intendeva una politica di chiusura delle piccole aziende aiutando solo poche grandi, in linea con la provocazione di Draghi, oppure stava promuovendo una politica di rafforzamento via capitalizzazione e ingrandimento facilitato delle piccole? C’è troppa nebbia, serve un soffio di Bora per diradarla.
Prima di tutto a Visco va detto che la correlazione tra scala di un’azienda e produttività è spuria. Infatti via nuove tecnologie anche una micro-impresa artigianale può fare grandi affari e margini nel mondo, come tanti esempi mostrano in Italia. Quindi il punto non è la scala, pur questa non irrilevante, ma l’accesso alla tecnologia e relativo incentivo 4.0 nonché alla formazione continua del capitale umano. A Draghi va detto che se chiudessimo le aziende a rischio di insolvenza perché sottocapitalizzate sparirebbe almeno il 25% del sistema produttivo italiano: il numero di espulsi dal lavoro eccederebbe le capacità di riassorbimento. Più importante, al governo va detto cosa fare perché sembra non saperlo. Prima di tutto togliere i limiti alla ricapitalizzazione delle aziende, grandi e piccole, e favorirla con incentivi fiscali, tipo quello del 110% adottato per la casa e senza la giungla leguleia e burocratica della sua applicazione. Ora il governo facilita, ma poco, la ricapitalizzazione di aziende sopra i 5 milioni di fatturato e non sotto: ma si può pensare ad una tale soglia in un sistema dove quelle sotto i cinque sono la maggioranza e più a rischio di zombismo nonostante buoni potenziali in tante? Surreale. Poi bisognerebbe superincentivare le aggregazioni tra imprese per creare complessi produttivi e di servizi più grandi e con più risorse. In modo correlato andrebbe ancora di più favorito l’accesso di imprese alla quotazione in Borsa nel segmento loro dedicato (Aim) dando molti più incentivi fiscali ai risparmiatori italiani per dare liquidità al segmento stesso, considerando che l’Italia esibisce il più alto tasso di risparmio al mondo, ma il più basso impiego dello stesso nella propria economia nazionale. Bisognerebbe fare tante cose del genere, ma riassumibili in un solo concetto: togliere tasse e pesi agli attori di mercato per farlo crescere di più, modificando tutta la struttura del bilancio pubblico italiano per detassare permanentemente e, oltre a ristori veri e non finti, incentivare contingentemente, anche rivedendo gli impieghi dei fondi europei in questa direzione concreta.