All’interno del potere cinese sta succedendo qualcosa di nuovo ed importante che va annotato da chi riflette sulla strategia per risolvere la “questione cinese”: lo scontro tra “aristocrazia rossa” e i grandi capitalisti, assimilabili ad élite borghesi/mercantili. La cancellazione d’imperio, con scuse piuttosto ridicole di tipo regolatorio, voluta direttamente da Xi Jinping – informazione raccolta dal Wall Street Journal – del processo di quotazione di Ant, piattaforma fintech posseduta da Jack Ma, geniale fondatore del gigante di e-commerce Ali Baba, svela che il regime comunista non riesce più a condizionare e controllare i grandi tycoon, che per altro il regime stesso ha creato/facilitato, con le “buone”, come successo finora, e che per riuscirci deve usare le “cattive”. Non solo, il modo rumoroso e non silenzioso con cui Xi ha voluto bloccare Ma segnala la necessità di un atto dissuasivo nei confronti di altri grandi imprenditori ed imprese. E va anche rilevato che Ma stesso, prima del blocco e di fronte alla pressione del regime per allinearlo, non è stato zitto, ma ha accusato pubblicamente il regime di difendere un sistema bancario obsoleto e asservito totalmente alle cordate politiche a scapito della modernizzazione, via piattaforma elettronica ad accesso diretto, del microcredito a favore di famiglie e piccole imprese. In sintesi, un tycoon, per altro membro del Partito comunista, ha sia tentato di disintermediare un sistema bancario clientelare e ferruginoso sia non ha esitato a levare la voce contro il regime: l’aristocrazia rossa sta trovando un contropotere inaspettato e forte.
Decine di grandi gruppi industriali cinesi internazionalizzati stanno soffrendo la postura sempre più limitatrice delle loro penetrazioni da parte delle democrazie che li percepiscono, correttamente finora, come strumenti di influenza e di furto tecnologico. La norma cinese li obbliga formalmente ad obbedire al sistema di sicurezza (e spionaggio) cinese, nonché a condividere le decisioni di strategia con un commissario politico. Ora dentro queste aziende ci sono top manager, nonché proprietari, che si rassegnano alla limitazione e chiedono compensazioni al regime ed altri che, invece, perseguono un tentativo di accreditarsi come gruppi di aziende e servizi de-politicizzati e dediti alla sola missione di business. I primi sono di più anche perché temono di essere uccisi. Ma i secondi stanno crescendo ed hanno grandi quantità di soldi per reclutare membri del Partito comunista, elementi militari e della sicurezza interna, creando un contropotere sufficiente. Xi ha puntato al potere nel 2012-13 come rappresentante dell’interesse dell’aristocrazia rossa – i discendenti dei comunisti della Lunga marcia – contrapposta ai nuovi capitalisti. Negli anni ’90 il Partito comunista cinese – oltre ad aver inserito nel suo programma che il liberismo economico, separato dal liberalismo democratico, è la miglior via per realizzare il socialismo – ha favorito l’ascesa di grandi imprese, nominalmente private, ma con proprietà e controllo condizionati dal regime, per dare all’esterno l’idea di una nazione modernizzante e per costruire un concreto capitalismo di Stato. Questo modello poi si è combinato con quello di gestione pragmatica del potere inaugurato da Deng Xiaoping nel 1978: armonizzare le diverse correnti politiche (anche territoriali) dando a ciascuna “il diritto di stecca” per arricchire i membri, entro un equilibrio di alternanza concordata nel potere, per evitare conflitti interni devastanti. Ma nel tempo il modello ha compresso gli aristocratici e dato un crescente potere ai “capitalisti rossi”. Xi prese il potere con estrema violenza, eliminando cordate avverse con la scusa della lotta alla corruzione, imponendo la sua, e attuando un controllo più forte sulle aziende. Nel 2017 assunse poteri dittatoriali per consolidare il proprio potere. Ma questa mossa ha scatenato controreazioni e un iniziale contropotere che Xi stesso sta facendo fatica a domare. Che Xi sia incline ad errori strategici per eccesso di autoritarismo (la vecchia scuola maoista-stalinista) è evidenziato, oltre che dall’aumento della repressione e dei campi di sterminio, dal fatto che la politica estera cinese aggressiva ha provocato la compattazione difensiva di tutte le nazioni vicine. In sintesi, questo è un leader che per rafforzare il potere genera sia un contropotere sia una delegittimazione, indebolendo il regime. Al momento questo è ancora forte, ma si intravedono crepe e quindi la possibilità di cambiarlo dall’interno, non presto, ma in prospettiva.
La “questione cinese”, infatti, pone un dilemma: il regime comunista è un cancro orrendo per il mondo, ma la Cina è uno dei centri principali del mercato globale. Una compressione esterna troppo forte rischierebbe di produrre, controreazioni belliche a parte, una depressione mondiale. Infatti è in atto un condizionamento/contenimento “leggero” che punta a limitare l’espansione del potere globale sinocomunista in base ad analisi che trovano pericolosi tentativi di cambiamento di regime. Ma i primi segni di un contropotere interno pragmatico e modernizzante, nonché di malcontento crescente nella popolazione per un’economia non più in grado di realizzare i sogni di 800 milioni di persone a fronte dei 500 diventati abbienti, aprono una nuova prospettiva si soluzione interna, da valutare. Per inciso, il Vaticano dovrebbe mettere le sue rimarchevoli risorse intellettuali e di potere morale al servizio del progetto di liberazione della Cina dal comunismo e non per quello di rinforzare un regime nazistoide che mostra le prime crepe. Per conoscenza, al governo italiano.