L’accordo commerciale Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep) tra le nazioni dell’Asean più Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e N. Zelanda, che conclude un negoziato iniziato nel 2012 e ne apre un altro di attualizzazione delle misure e di estensione entro il 2030, ha suscitato valutazioni diverse nella scenaristica occidentale. Semplificando, quattro: 1) è un nonsense economico perché mette insieme nazioni tutte esportatrici in surplus, con le eccezioni di Australia e N. Zelanda, ma queste piccole in relazione al complesso; 2) non ha un valore geopolitico in quanto le nazioni del Pacifico impegnate nel contenimento della Cina non cambieranno postura, anche considerando che l’India ha voluto (per il momento) restarne fuori; 3) è un capolavoro diplomatico della Cina perché ha impostato un nuovo centro della globalizzazione sostitutivo dell’America; 4) anche se non produrrà effetti (geo)politici immediati, lo farà in prospettiva su un nuovo livello di guerra economica perché l’accordo tende a creare uno standard “Asia-Pacifico” (industriale, ambientale, lavoro, trasparenza finanziaria, ecc.) diverso da quelli europeo e statunitense, potenzialmente barriera non tariffaria o di fatto (costi) per i prodotti euroamericani. Chi scrive ritiene non centrata la prima valutazione, miope la seconda, concorda in parte con la terza e molto con la quarta.
Pechino deve contrastare l’isolamento sia viciniore sia euroamericano. Colpisce la sua mediazione tra i litiganti Corea del Sud e Giappone. Evidentemente ha l’obiettivo di una convergenza triangolare come centro motore del mercato Asia-Pacifico per poi farlo diventare il più grande al mondo con capacità, appunto, di standard setting. La novità strategica è che la Cina sta prendendo un modello di “impero condiviso” tentando una formula triangolare che imita il dominio diarchico franco-tedesco sulla regione europea. Lo è anche un più intenso uso strumentale dell’apertura del suo mercato interno. Difficilmente il Giappone aderirà del tutto all’invito di Pechino, pur primo investitore estero in Cina, perché sia ha vantaggi netti nel far parte del mercato del G7 – strutturato dagli accordi bilaterali con Usa e Ue – sia ha una postura imperiale propria, mostrata dall’aver tenuto in piedi il (Cp)Tpp (11 nazioni) dopo l’abbandono dell’America. Tale limite attutisce il rischio di guerra degli standard con danno euroamericano, ma non lo azzera. Cosa fare in attesa di chiarimenti sul risiko? Inserirsi in posizione di dominio nei flussi finanziari dell’Asia-Pacifico, come le banche statunitensi stanno facendo.