I pensatoi strategici del mondo rilevante stanno cercando di immaginare le conseguenze sulla politica estera statunitense di una vittoria o di Joe Biden o di Donald Trump, correlandola con i propri interessi nazionali. Potrebbe apparire prematuro, ma in realtà non lo è: le nazioni sia nemiche sia incluse nell'impero americano, o non ostili a esso, si devono preparare per ambedue gli scenari. Biden appare favorito, ma non è escludibile una rimonta di Trump. Infatti le azioni di diplomazia riservata si stanno infittendo verso ambedue le campagne, le intelligence cercano di capire chi potrebbero essere le nuove persone nei ruoli di testa dell'amministrazione e - quasi più importante - nella burocrazia imperiale. Nel frattempo i governi restano silenziosi, attentissimi a non farsi catalogare come favorevoli all'uno o altro candidato. Per inciso, ha destato interesse l'apparentemente sconsolata dichiarazione del portavoce del Cremlino: chiunque vinca considererà la Russia un nemico. Un modo per segnalare che Mosca non sta cercando di influire sul processo elettorale? Un chiaro segnale che Vladimir Putin in difficoltà vorrà negoziare con chiunque vinca e che la russofobia sarebbe controproducente agli interessi statunitensi? O altro? La Cina, invece, è sì silenziosa, ma anche la più attiva nel cercare di influenzare la politica Usa. Il modo è quello già usato per condizionare Bill Clinton a metà degli anni Novanta: dare enormi incentivi a industria e finanza statunitensi nel mercato interno cinese in cambio di pressioni sulla Casa Bianca. Qualche settimana fa Pechino ha dato il permesso ai grandi istituti finanziari statunitensi, e non solo, di avere la maggioranza nelle loro filiali residenti in Cina e una licenza per gestire il risparmio di più di un miliardo di persone: appare chiara la strategia cinese di influenza post elezioni. Tutti gli attori geopolitici non sottovalutano il potere dell'impero, pure internamente scosso, e si preparano a trattative. La Cina è in posizione di cercare di limitare i danni avendo preso atto che ormai l'America sia repubblicana sia democratica la vede come nemico. La Russia è disposta a una qualche convergenza sostanziale pur restando divergente sul piano nominale. Tutti i loro pensatoi, appunto, stanno cercando di immaginare quale linea prenderà l'impero: da quel che filtra da alcune capitali sembra che molti considerino molto diverse le possibili scelte di Biden o Trump.
Chi scrive, invece, ritiene che ci potranno essere diversità di stile, ma che la futura linea dell'impero, vinca il democratico o il repubblicano, sarà una: il re ingaggio negli affari globali e una maggiore attenzione al consolidamento delle alleanze. Né democratici né repubblicani vogliono rinunciare all'impero. Il problema è come conciliare i suoi costi con le possibilità della nazione. Da quasi 5o anni, cioè da quando Henry Kissinger pose il problema della loro insostenibilità, proponendo la soluzione di condividerli, rimane irrisolto. Sul piano militare, George W. Bush sostenne, nella campagna del 2000, la dottrina dell'interesse nazionale, contro il globalismo clintoniano, che prevedeva-di limitare l'ingaggio americano diretto nel mondo solo in caso di minaccia agli interessi vitali, delegando agli alleati la responsabilità per la loro sicurezza regionale, pur offrendo l'ombrello statunitense. Ma nel 2001 l'America si reingaggiò direttamente nel globo contro l'insorgenza islamica, con costi enormi per la nazione. Barack Obama riprese la dottrina dell'interesse nazionale (guidare da dietro) cercando di armonizzarla con il globalismo. Reagì (per pressione della burocrazia imperiale) alla sfida dell'emergente potere cinese e al problema di ridurre il deficit commerciale, cioè l'impatto impoverente sui lavoratori americani dell'eccesso di concorrenza esterna, con un'unica mossa: creare due aree di mercato amerocentriche, una nel Pacifico (Tpp) e l'altra nell'Atlantico (Ttip), che escludessero Cina e Russia e che costringessero alleati asiatici ed europei ad accettare un riequilibrio negli scambi commerciali. Trump cancellò tale iniziativa, ma la ricalcò imponendo trattati bilaterali di commercio simmetrico, pena la negazione dell'accesso al mercato interno statunitense, e più contributi degli alleati allo sforzo militare. Di fatto, Obama e Trump perseguirono il medesimo disegno di rendere l'impero economicamente sostenibile, il primo con un metodo troppo confuso e il secondo con uno troppo duro, anche se nell'ultimo anno lo ha molto ammorbidito: rafforzamento della Nato, trattati commerciali simmetrici non particolarmente penalizzanti pur in logica americanista, estensione dell'alleanza a India e, gradualmente, alla Russia (pur tema divisivo), eccetera. Perché? La sfida con la Cina implica il condizionarla circondandola e comprimendola: per questo servono alleati. Il deficit commerciale statunitense nell'era Trump è aumentato e il riequilibrio implica posizioni negoziali convergenti con gli esportatori alleati e non troppo dure. In sintesi, la linea futura al momento più probabile di Trump o di Biden sarà un reingaggio negli affari globali dando più rilevanza alle alleanze, anche utili per la tenuta del primato del dollaro. Il tema principale per l'Ue e per l'Italia in questo scenario dove l'impero torna ad essere inclusivo? Evitare, come successe con Obama, che Washington dia più attenzioni al Pacifico che all'Atlantico. Come? Rendendo meno ambigua la riconvergenza euroamericana e più importante l'Ue come partner dell'ordine mondiale e non come concorrente.