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Carlo Pelanda: 2020-8-23La Verità

2020-8-23

23/8/2020

L’Italia si quota ma il governo de-italianizza la Borsa

La forza dell’economia italiana è data dalla sua imprenditoria di massa e da un volume di risparmio tra i più elevati nel mondo. La sua debolezza è dovuta al fatto che imprese e risparmio residenti finora non si sono incrociati, la mediazione offerta dal credito bancario insufficiente. Quella della Borsa, incrociando aziende e capitali, sarebbe la migliore per effetto propulsivo. Ma l’azienda Borsa italiana – per intanto la sua piattaforma di scambio dei titoli sovrani, MTS - è stata messa in vendita, forzata dall’antitrust europeo, dal gruppo proprietario londinese che si sta fondendo con uno statunitense. Il governo italiano ha sollecitato – su pressione di Parigi - un’offerta italo/francese, cioè Cdp in partenariato con Euronext, la rete di Borse europee partecipata dallo Stato francese via Caisse des dépôts et consignations (Cdc). Nella gara si è inserita in competizione Deutsche Boerse. L’idea è che il London Stock Exchange Group, azionista di maggioranza del gruppo Borsa italiana, alla fine voglia vendere anche la piattaforma di scambi azionari, cioè il luogo dedicato alla quotazione delle aziende italiane. Quindi è il momento giusto per valutare quale proprietà sia la più adatta agli interessi economici dell’Italia, esplicitando il criterio per fini di dibattito pubblico.

Ci sono almeno 3mila piccole e medie imprese italiane che potrebbero quotarsi in Borsa nei prossimi 5 anni, per lo più nel segmento “Aim” dedicato alle piccole, di cui circa la metà – poiché iscritte al programma preparatorio “élite” di Borsa italiana - già in traiettoria. Negli ultimi anni c’è stato un cambiamento sostanziale nella cultura delle imprese famigliari, migliaia. Tradizionalmente, queste rifiutavano l’idea sia della quotazione in Borsa sia dell’entrata di fondi di investimento nell’azionariato. Ora hanno cambiato idea e in numero crescente si stanno “aprendo”. Motivi: a) l’imprenditore fondatore, ormai anziano, ha dei figli che non vogliono - o che non reputa competenti per – gestire l’azienda, anche se ottima, e quindi è disposto a venderla; b) si accorge che il credito bancario sempre più limitato da restrizioni regolamentari non è in grado di sostenere la crescita dell’azienda e si “apre” all’intervento di un fondo di investimento privato o all’idea di quotarsi in Borsa. La varietà dei motivi è maggiore, ma può essere sintetizzata dalle due categorie dette. Il primo punto è che migliaia di aziende finora chiuse al capitale di investimento ora si sono aperte. Il secondo è che molte di queste sono veri e propri “salvadanai magici”: ci metti un euro e ne ricavi 3 o 4 se nella piccola azienda vengono inseriti capitale, manager professionali, tecnologia e capacità di internazionalizzazione. Ma, attenzione: il “se” è dirimente. Se, infatti, non si inseriscono capitale, manager pro, tecnologia e capacità internazionale, allora una gran massa delle piccole aziende italiane si troverà in crisi competitiva. Tale osservazione porta un tema di interessi privati al livello di quello sistemico-pubblico: le piccole imprese devono trovare incentivi per modernizzarsi e, soprattutto, un luogo dove presentarsi al capitale di investimento. Tale luogo è, necessariamente, la Borsa. E una Borsa che sia configurata per quotare piccole imprese, cioè adatta al peculiare sistema industriale che è unico al mondo. Da tempo governi, regolatori e attori di mercato lo hanno capito. Così come hanno capito la necessità di incentivare il risparmio italiano affinché si riversi nell’economia reale italiana, per esempio con detassazione selettiva per tali investimenti. Ma la quantità di imprese italiane oggetto di investimento valutabile in base al rischio è stata finora minima e solo alla portata dei fondi specializzati e ciò ha ridotto i flussi. Ora, apppunto, c’è la disponibilità delle proprietà aziendali a quotarsi in trasparenza e ciò rende Borsa italiana uno strumento sia di salvazione dell’economia nazionale sia di leva formidabile per il suo sviluppo. Ma va aggiunto che la maggior parte delle piccole imprese hanno bisogno di interventi per rendersi presentabili al capitale sul palco Borsa, cioè in bonis e con credibile prospettiva di crescita: manager, equilibrio finanziario, gestione, tecnologia, ecc.  E ciò richiede sia incentivi – riduzione delle tasse, trasformazione 4.0, ecc. – sia capitale privato di accompagnamento per l’ultimo miglio prima dell’approdo in Borsa, fornito da fondi privati con questa missione, facilitati da detassazione totale dei rendimenti. In sintesi, si tratta di una grande operazione di sistema dove la Borsa è uno dei tanti elementi del lego, ma anche quello principale. Si immagini una Borsa italiana che diviene la più grande al mondo nel segmento delle piccole imprese e l’effetto sul Made in Italy classico e tecnologico: boom e più attrazione di capitali da tutto il mondo.  

La Francia lo ha già immaginato e ha chiesto all’Italia la partecipazione a questo gioco, per poi inglobarlo in Euronext, in cambio dell’aiuto per avere soldi europei. La Germania cerca di bloccarla. Ambedue non solo vogliono il bottino, ma anche temono che migliaia di aziende italiane rivitalizzate e ricapitalizzate dalla Borsa poi divengano più competitive delle loro: non sembrano proprietà affidabili. Convincere gli inglesi, tra pochi mesi americani, a restare? Forse, ma è evidente che la peculiarità del sistema industriale italiano richiede una proprietà nazionale, non per nazionalismo, ma per la compattazione armonica di una grande operazione di sistema. Ormai per Mts i giochi sembrano fatti, ma c’è ancora tempo per formare una cordata italiana privata che compri la piattaforma azionaria e dintorni. Sarebbe un megabusiness per gli investitori e i lavoratori mentre la scelta cessionaria del governo li danneggerebbe.

(c) 2020 Carlo Pelanda
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