Sarebbe un enorme rischio per il sistema industriale italiano accettare, in situazione di debolezza negoziale, una condizionalità franco-tedesca sul piano delle riforme, in particolare della politica industriale, in cambio dei soldi eurogarantiti attivati dal fondo europeo di 750 miliardi e dintorni: la perdita di autonomia, e quindi di ricchezza residente, delle aziende italiane nei settori tecnologici più avanzati e generatrici di un indotto fatto di migliaia di piccole imprese altamente qualificate. Cosa vuole la Francia? In generale, conquistare il dominio dei centri più rilevanti dell’economia italiana per tentare di bilanciare sul piano della forza sostanziale lo strapotere tedesco. In particolare, acquisire il controllo dell’industria militare, prioritaria quella aerospaziale, allo scopo di rendere la Francia stessa il monopolista europeo del settore sia per usare i soldi degli europei a favore dei suoi programmi nazionali sia per consolidare una relazione diarchica paritetica con la Germania dove Parigi, ora unica potenza nucleare dell’Ue, ha il primato sulla guerra e derivate geopolitiche e Berlino – che però ci sta ripensando - quello limitato all’economia civile. Inoltre, Parigi vuole un’autonomia europea francocentrica post-Nato, non necessariamente antiamericana, ma per trattare alla pari con gli Stati Uniti. Con una complicazione: non si riesce a capire se il comando della strategia in Francia lo abbia un organo statale o un club privato di élite industriali e finanziarie che usa lo Stato stesso come strumento operativo. Certamente c’è commistione. Questa, oltre da tanti fatti negli ultimi 20 anni, traspare dai protocolli segreti di secondo livello, cioè settore per settore, del recente Trattato franco-tedesco di Aquisgrana: la conquista di una posizione monopolista, o per spartizione o per collaborazione, nella regione europea delle industrie tedesche e francesi, non lasciando più autonomia a quelle rilevanti di altre nazioni. Di fatto un signoraggio geopolitico. L’Italia, pur la sua industria prevalentemente specializzata per fornitura di componenti di altissima qualità, ha anche un’autonomia residente nei grandi sistemi che interessano alla Francia: tutta la filiera “spazio” dai lanciatori ai satelliti e strumenti di osservazione e comunicazione, così come quella navale, dagli scafi agli armamenti, nonché terrestre. Con punti di eccellenza in nicchie rilevanti quali la guerra elettronica, antennistica e filtri per la criptazione di radiocomunicazioni, robotica, ecc: centinaia di nuove tecnologie, molte di primato mondiale, migliaia di imprese. Per inciso, si consideri che più la guerra e le strategie di dominio si avvalgono di informazione e più la tecnologia militare diventa duale, cioè sia trasferibile al, sia importabile dal, civile, riducendo il confine tra i due settori. Ciò rende l’industria della Difesa il traino principale dell’evoluzione tecnologica di un intero sistema industriale nazionale, amplificato dal riarmo competitivo guidato da America e Cina. L’Italia ha capacità di medio-grande potenza nel settore, al momento orientata alla collaborazione prevalente con l’industria britannica e statunitense, per esempio nel futurizzante caccia di sesta generazione Tempest. La Francia deve necessariamente prenderne il controllo per sperare di attuare la strategia detta sopra. La condizionalità sulle “riforme” sempre più citata come condizione per accedere ai soldi europei offre alla Francia uno strumento insperato per aumentare il dominio dell’industria tecnologica italiana. E la Germania? E’ meno aggressiva, inizia ad avere dubbi nel seguire totalmente la Francia, ma ha bisogno di un controllo politico diretto dell’Italia, progetto Kunstenland (litorale), per allineare Roma alla sua strategia globale. Questo sarà il condizionamento richiesto da Berlino, più sottile, ma più de-sovranizzante. In sintesi: solo un irresponsabile può pensare di ricorrere alla generosità franco-tedesca, travestita da europea, sapendo cosa c’è in realtà sotto. Certamente Angela Merkel ed Emmanuel Macron sono sinceri nell’offrire all’Italia almeno 170 miliardi eurogarantiti in notevole parte a fondo perduto sui 750 in discussione: è un investimento, tra l’altro con i soldi italiani conferiti al bilancio europeo, che avrebbe una resa geoeconomica e geopolitica per loro enorme, a nostro danno impoverente.
Per evitarlo, l’Italia deve arrangiarsi da sola. Può? I 170 miliardi che servono li può ricavare attraverso un prestito irredimibile di 100 anni – dove il rendimento lungo, che rende il titolo moneta privilegiata superliquida, sostituisce il rimborso del capitale – che non è classificabile come debito pubblico. Per integrazione si possono trasformare in liquidità non a debito i diritti speciali di prelievo presso il Fmi. Fonti autorevoli hanno già suggerito ambedue le soluzioni, l’Austria, ha lanciato un prestito irredimibile per 2 miliardi. Il fatto che il governo non voglia nemmeno studiarne la fattibilità, considerando che i soldi sarebbero disponibili in poche settimane, è motivo di sospetto qui segnalato al Quirinale. Anche perché tale soluzione, pur divergendo dagli interessi condizionanti di Berlino e Parigi, è del tutto euroconvergente: l’Italia si salva non facendo debito, non chiede la carità in modi divisivi tra nordici ed euromeridionali e aiuta anche la Bce a rendere sostenibile il suo sostegno. Giuseppe Conte dovrebbe spiegare perché nemmeno la sta studiando: frastornata inesperienza, influenza esterna penetrata attraverso suoi collaboratori e ministri o scambio opaco con poteri europei per interesse solo personale?