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Carlo Pelanda: 2020-5-31La Verità

2020-5-31

31/5/2020

L’imbecillità strategica e morale dell’Italia

Cina ed America hanno aumentato la loro aggressività reciproca. Quale collocazione dell’Italia in questo conflitto è più vantaggiosa per l’interesse nazionale?

La prima fase della Guerra tra America e Cina è stata avviata da Barack Obama nel febbraio 2013 in forma indiretta: creare due aree amerocentriche di mercato integrato nel Pacifico (Tpp) e nell’Atlantico (Ttip) che escludessero Pechino (e Russia) allo scopo di limitarne l’espansione. Il regime nazionalcomunista cinese reagì con il progetto “Via della Seta” invitando le nazioni euroasiatiche a parteciparvi come condizione di accesso al mercato interno cinese e per investimenti nonché corteggiando gli alleati più stretti dell’America nel Pacifico. In sintesi, al tentativo americano di ridurre l’area di mercato sinocentrica, la Cina ha risposto con una strategia simmetrica, così volendo dimostrare che poteva usare la scala del proprio mercato interno come strumento di dominio/condizionamento esterno tanto quanto l’America e di più. Donald Trump, dal 2017, annullò la strategia obamiana in base ad una visione americanista meno condizionabile da trattati con gli alleati. Ma continuò la guerra con la Cina passando ad un metodo di confronto diretto. Inizialmente è stato solo dissuasivo per ottenere un riequilibrio commerciale. Ora è diventato più duro. Perché?

Certamente Trump ha bisogno di un nemico per la sua campagna elettorale e la Cina è quello perfetto: dittatura che controlla in dettaglio ogni singolo individuo, che uccide i devianti in campi di  rieducazione (Laogai), in realtà di sterminio, che ruba tecnologie, che sostiene altri regimi autoritari nel mondo e nazioni emergenti chiedendo in cambio il loro voto all’Onu, tra cui L’Etiopia che esprime il presidente dell’Oms, e che, soprattutto, ha tardato intenzionalmente la comunicazione relativa al rischio epidemico. Ma sbaglia chi pensa ad una ricomposizione post-elettorale tra le due potenze. Un Trump in secondo mandato continuerà la guerra e Joseph Biden, nel caso fosse eletto, la condurrà in modo perfino più incisivo perché il Partito democratico è molto sensibile all’affermazione dei valori democratici contro l’autoritarismo. Inoltre, sia sinistra sia destra, nonché sindacati, sono favorevoli al rientro delle produzioni in America dalla Cina, creando un ambiente in cui l’esclusione del mercato cinese potrà essere di minor danno per l’America stessa. La decisione di abbattere Pechino-Cartagine è ormai una definitiva che compatta tutta Washington-Roma, in particolare la “burocrazia imperiale” statunitense, fatto che implica il pieno dispiegamento delle risorse belliche e di influenza riservata americane. Ciò non esclude tregue, ma è guerra vera.

Infatti Xi Jinping ha paura. Non può arrendersi perché verrebbe eliminato dal Partito comunista, che dovrà riconfermarlo nel 2022, in cui molti segretamente lo contrastano perché ha tolto loro il “diritto di stecca”, per farlo prendere tutto alla sua “cordata”. Già da qualche anno l’economia cinese traballa creando dissensi interni che hanno costretto Xi Jinpig nel 2017 ad assumere poteri dittatoriali formali per controllarli. Ora la crisi dell’export e quella interna per il virus, in combinazione con il fatto che la crescita in Cina ha raggiunto un picco dal quale potrà solo scendere, pone al dittatore il problema di deviare le attenzioni verso attacchi esterni. Ma l’aggressività verso Hong Kong e Taiwan ha solo questo motivo? Non sembra. Pur indebolito e con il bisogno di dare ai militari un giocattolo, Pechino ha ancora un enorme potere di controllo interno. E’ più probabile, invece, che tenti di ripetere la strategia usata nel confronto simmetrico detto sopra: l’America vuole isolarmi, io isolerò l’America. Dove la novità è che Pechino non userà incentivi, anche perché ha meno soldi, ma minacce che deve rendere credibili, appunto, con una postura di aggressività. L’esempio è l’Australia: ha osato chiedere un’indagine sui ritardi nella comunicazione dell’epidemia e la Cina ha messo dazi sul suo export e ridotto gli scambi a livelli che mettono in difficoltà Canberra. Ciò serve anche a dissuadere gli europei e, soprattutto, la Germania: se prova a seguire l’America, Volkswagen non potrà vendere il 40% delle sue auto in Cina. Infatti il governo tedesco e la Commissione hanno subito condannato l’uscita dell’America dall’Oms. Merkel ha rifiutato la presenza fisica nel vertice G7 in America, ma (sembra) confermando la visita in Cina a settembre. In sintesi, la Cina vuole rispondere all’America condizionando l’Europa per staccarla dall’America stessa e minacciando le nazioni del Pacifico di crisi economica se non si allineano.

La Germania tenterà di mantenere l’accesso sia al mercato statunitense sia a quello cinese, ma dovrà concedere molto all’America – sbarramenti anticinesi - come ha già fatto. La Francia coglierà l’occasione per mostrarsi il vero interlocutore dell’America nei fatti pur non nelle parole e tenterà di scambiare più convergenza con il riconoscimento di un’autonomia europea francocentrica. L’Italia, stupidamente frettolosa, diversamente dalla Francia, nel contestare l’America, mantiene una posizione ambigua che non offre alcun vantaggio. Nella guerra sino-americana l’Ue non può star fuori perché oggetto di conquista per ambedue i contendenti: dovrà necessariamente scegliere l’America e il mondo delle democrazie. Pertanto la strategia migliore per l’Italia è anticipare la convergenza con l’America e renderla credibile per ottenere in cambio sia privilegi commerciali sia uno spazio di relazioni economiche residue sotto il livello politico con la Cina stessa. La Germania, alla fine, farà così. Il governo sta seguendo una linea sino-collaborazionista, pur con eccezioni individuali, distinguendosi per imbecillità strategica. E anche morale: complice di un regime comunista e assassino.

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