I 2,5 milioni di nuove buste paga (ri)generate in America nel mese di maggio ne hanno modificato lo scenario. La tendenza stimata poche settimane fa era verso il 20% ed oltre di disoccupazione con recupero lentissimo della stessa e conseguente crisi strutturale mentre ora è probabile che la disoccupazione stessa rientri sotto il 10% entro poco tempo e che il sistema recuperi nel 2021 il Pil perso nel 2020 e vada oltre. Resteranno sacche di crisi e di disoccupazione strutturale, ma la loro quantità rimarrà sotto la soglia oltre la quale compromette la crescita. In sintesi, il dollaro resterà moneta di riferimento mondiale e la forza del mercato interno rimarrà una leva formidabile per la proiezione esterna del potere statunitense. Come e quanto tale forza verrà applicata dipende dall’esito delle elezioni presidenziali di novembre, ma per intanto il pensiero strategico italiano – al momento indeciso tra una scelta pro americana ed una pro cinese - deve annotare che bisognerà fare i conti con un’America forte e non indebolita dalla crisi epidemica e che, nella guerra montante tra America stessa e Cina, l’aquila ha la piena capacità (e voglia) di abbattere il dragone.
Il punto: l’interesse nazionale mercantilista dell’Italia, in quanto potenza esportatrice, è quello di poter accedere in modo fluido sia al mercato cinese sia a quello americano nonché ricevere turisti ed investimenti da ambedue. La Germania ha il medesimo interesse. Ma poiché c’è conflitto tra America e Cina e questo sta prendendo la forma di guerra economica nonché di estensione competitiva delle due aree di influenza dove il dominio dell’Eurasia occidentale è una delle condizioni di vittoria, non sarà possibile restare in ambedue i mercati: bisognerà privilegiarne uno. Mentre per l’Italia la dipendenza dall’export nel mercato cinese non è rilevante, pur importante il flusso indirizzato politicamente di turisti cinesi, ma sostituibile, per la Germania è un interesse vitale così come lo è l’accesso al mercato statunitense perché l’export contribuisce per il 52% al suo Pil: il dover ridurre la presenza in uno dei due mercati, infatti, è un rischio esistenziale per la potenza economica e politica tedesca. Berlino, tradizionalmente, ha un ottimo centro studi per le strategie di “geopolitica economica” e sta valutando diverse opzioni: collocare l’Ue in una posizione di neutralità tra America e Cina, convergere con la Russia per formare un blocco russo-tedesco eurasiatico che permetta una minore dipendenza dal mercato statunitense, nonché maggiore capacità contrattuale con l’America, e anche più forza negoziale con la Cina, nel frattempo cercando di dipendere meno dall’export spingendo di più gli investimenti e i consumi interni. Al momento sta pompando con scala impressionante gli investimenti interni sia perché stima troppo lenta la ripresa dell’export sia per il motivo qui detto, abbandonando la postura del rigore e tornando all’indebitamento massivo. Inoltre, in tutte le opzioni, la Germania deve assolutamente avere il potere di allineare gli altri europei alla sua strategia di interesse nazionale. Infatti la “generosità” tedesca nel dare (promettere) all’Italia più soldi di quanti ne metta Roma nel Recovery o Next Generation Fund è condizionata dall’accettazione dell’allineamento e non più dal rigore. Ma non a caso lo stanziamento è stato rinviato al 2021 quando sarà chiara la linea statunitense. Berlino spera nella vittoria di Joseph Biden non perché questi e il Partito democratico possano essere più teneri con la Cina, anzi, ma perché con quella Amministrazione sarebbe più facile riprendere il negoziato per un mercato euroamericano integrato, come avviato da Barack Obama, che salvaguardi gli interessi tedeschi e mantenga Berlino interlocutore privilegiato, quindi capace di trattare con la Cina (e la Russia) una relazione senza chiedere il permesso a Washington. Mentre se vince Donald Trump l’idea è quella di depotenziare la Germania per togliere a Berlino il comando sugli europei e alla Russia un’opzione alternativa alla convergenza con l’America in funzione anticinese. Tale intenzione è visibile nella recente proposta di estendere il G7 ad Australia, Corea del Sud, India e Russia, cioè di creare un’alleanza e un’area di mercato più grandi della Cina, circondandola, allo scopo di poterla condizionare e soffocare se mantiene la sua pretesa di diventare impero con raggio globale, sostituendo l’America, comunque puntando ad un cambiamento di regime.
La Francia persegue un’autonomia europea, ma la sta variando in direzione pro atlantica per non seguire la Germania. Tuttavia, è silenziosa perché in grave crisi. Continua a cercare più influenza economica in Italia per allinearla in un bilanciamento del potere tedesco. A questa posizione la Germania sta rispondendo bonariamente perché ormai la Francia è secondaria e ricattabile dal suo strapotere. Bel risiko, nevvero? Complicato dal fatto che gran parte dell’industria italiana fornisce componenti a quella tedesca. Ma per chi scrive la linea strategica di miglior interesse italiano è chiara: rafforzare l’alleanza con l’America e mostrarsi pilastro pro-atlantico nell’Ue, cosa che Parigi vorrebbe fare, ma non può, e Berlino (al momento) non vuole, ottenendo in cambio uno spazio, pur limitato, di relazioni commerciali con la Cina. E una maggiore forza negoziale con Francia e Germania. La logica è armonizzare interesse mercantilista e requisiti geopolitici. Ma il governo italiano ne sta seguendo altre, confusamente, mostrandosi pollaio di galline starnazzanti senza testa.