Non vorrei che l’emergenza del sinovirus, pur seria, mettesse in ombra quella molto più difficile da gestire dell’economia italiana: il declino – finora lento dai primi anni ’90 – sta accelerando. Sempre più i dati – non solo la tendenza recessiva in atto, ma il complesso dei descrittori sistemici – mostrano un destino negativo: non imploderemo domani, ma senza importanti cambiamenti certamente imploderemo. Il progetto del capitalismo di massa, che è la base concreta della democrazia, si è interrotto: mentre negli Anni ’90 i dati mostravano una configurazione della società fatta da 2/3 di ricchi (cioè capaci di risparmio) ed 1/3 di poveri, ma con la speranza di diventare ricchi, oggi la proporzione sia sta avvicinando al 50% di ricchi e poveri, ma molti dei primi in ansia e i secondi con sempre meno speranza di migliorare. Tale fenomeno di regresso è visibile in tutte le democrazie, ma in quella italiana non solo è peggiore, ma nemmeno si vede o una volontà o una capacità realistica di reazione. Lancio l’allarme non per catastrofismo, ma, al contrario, per stimolare soluzioni.
Nel lontano 1994, in una pausa del Forum di Cernobbio, Edward Luttwak, Giulio Tremonti ed io ci trovammo concordi nel dover avvertire che le democrazie stavano correndo un crescente rischio di impoverimento, contrastando l’euforia analitica prevalente del tempo che riteneva non necessario modificare i cicli interni ed internazionale del capitale. Decidemmo di scrivere “Il fantasma della povertà” (Mondadori, 1995). Non c’è soddisfazione nel sottolineare che quel libro fu profetico, ma preoccupazione perché l’inerzia politica ed intellettuale prevalse, e tuttora prevale, sulla ricerca di soluzioni in tempo utile. Ora la crisi è evidente ed è tempo di soluzioni prima che diventi irreversibile. L’Italia ed altri sono in difficoltà per l’architettura sbagliata dell’Eurozona che inasprisce i difetti strutturali dei modelli economici interni e, per l’Italia stessa, il peccato originale di aver voluto partecipare all’euro prima di aver ridotto il debito, errore che ha ucciso economicamente almeno il 30% degli italiani, in particolare l’olocausto 2013-14. La soluzione, in generale, è permettere ad ogni nazione di siglare un contratto specifico con l’Ue che le permetta di generare più investimenti. Per l’Italia, in particolare, il problema è complicato dall’enorme debito che toglie al bilancio dai 60 ai 70 miliardi all’anno per pagare interessi invece che finanziare detassazioni e/o programmi pubblici modernizzanti. Ma ciò non impedisce la seguente soluzione: (a) riduzione di parte del debito, valorizzando e vendendo gradualmente parte del patrimonio pubblico disponibile, recuperando in bilancio subito, con una formula di impacchettamento finanziario, almeno 25 miliardi anno; (b) portare la regola del pareggio di bilancio da un anno a cinque per finanziare in deficit con cifre adeguate un forte sviluppo. Possibile? Certamente sì. Ma l’Italia non chiede la prima misura – che è garanzia di bilanciamento della seconda – perché i partiti non vogliono perdere il controllo del patrimonio nazionale e locale (immobili, partecipazioni e concessioni) per motivi clientelari. Inoltre non ha il coraggio di portare nell’Ue il problema che la sta destabilizzando: alla cessione di sovranità economica (bilancio, moneta e cambio) non corrisponde un ritorno della sovranità stessa alle nazioni in modi eurocompatibili, rendendo impoverente la partecipazione all’euro. Paolo Savona ed io impostammo una teoria, semplificando, di “andata e ritorno della sovranità rielaborata” nel libro “Sovranità & ricchezza” (Sperling, 2001) che se applicata all’Ue la renderebbe sia più coesa sia più flessibile e comoda per tutti, ma non più strutturata per favorire il comando imperiale di Francia e Germania. Finora la politica italiana è stata eurosuccube oppure apocalittica, perdendo di vista l’interesse nazionale: all’Italia serve far parte di un mercato integrato più ampio, ma in questo ci deve stare comoda. Se l’Italia premesse con forza la soluzione qui abbozzata, il suo potenziale industriale residuo sarebbe sufficiente per invertire il declino e perfino andare in boom.
Servirebbe anche altro, ovviamente, proposto nel mio libro “Strategia 2028” (Angeli, 2017). Per esempio, passare dal modello di welfare assistenziale a quello di welfare di investimento calibrato per fornire un potere cognitivo di massa, ora non fornito dal sistema educativo, che è necessario per ricostruire un capitalismo diffuso socialmente. Inoltre l’Italia deve riconfigurarsi come esportatore di sviluppo e sicurezza anche per aiutare le altre democrazie affinché il loro sviluppo aiuti l’Italia stessa. Serve infatti l’idea, da portare al G7, che le democrazie dovrebbero allearsi a livello globale, formando un mercato integrato tra loro, nonché spingere l’Ue ad essere un pezzo “aperto” di questo nuovo sistema mondiale invece che una sovranità “chiusa” provinciale e obsoleta che lo frammenta. Ma per trasformare l’Italia da attore passivo in attivo serve una conduzione più stabile e netta della nostra democrazia, ottenibile solo con il modello di Repubblica presidenziale: questo è il primo passo che l’Italia deve fare per invertire il declino, sperabilmente via convergenza costituzionale tra destra e sinistra. Se non avviene, allora tocca ad una mobilitazione popolare forzarla: non “sardine” contro qualcuno, ma “arieti” per tutti.