Verso una pace vera tra America e Cina o solo una tregua? E’ una tregua, ma rilevante perché indotta dall’evidenza che l’impiego di dazi e controdazi è controproducente per ambedue gli attori in competizione-conflitto per il dominio globale. Ora la domanda di scenario è: con quali strumenti continuerà la guerra tra America e Cina?
Perché sono incline a prevedere una continuazione del conflitto? L’America si sente tradita dalla Cina e, soprattutto, ne teme una superiorità globale che la trasformerebbe da impero in regno minore. Questo secondo motivo amplifica il primo ed è più facilmente comunicabile. Riporto il linguaggio sentito più volte nell’ultimo anno da funzionari e politici statunitensi, sia repubblicani sia democratici: ci siamo fidati delle promesse cinesi di collaborazione, apertura del mercato, trasparenza e onestà fatte a metà degli anni ’90 a Bill Clinton e rinnovate agli inizi del nuovo millennio, ma osserviamo spionaggio, furto di tecnologia, chiusure, disonestà e aggressività, provata da molteplici rapporti tra cui uno “bipartisan” del Congresso nell’estate del 2017, e abbiamo detto basta. In realtà il problema cinese è stato sempre ben presente e monitorato dalle Amministrazioni statunitensi. Ma quella guidata da George W. Bush aveva la priorità di ottenere collaborazioni anche da Pechino per il difficile ingaggio contro l’insorgenza islamista. Quella condotta da Barack Obama ha avuto la priorità di convincere la Cina a sostenere la domanda globale dopo la crisi del 2008, cosa che Pechino ha fatto forzando oltre misura la crescita interna, e quindi non quella di contenerne l’espansione. Anzi, dichiarò decaduto il G7 + 1 nel 2009 a favore di un G 20 che in realtà riconosceva alla Cina lo status di partner per un governo G2 del sistema globale. Finita tale emergenza e rilevato che Pechino l’aveva usata per una strategia di potere a danno dell’America, nel febbraio 2013 Obama annunciò la creazione di due aree di libero scambio amerocentriche con lo scopo di creare un argine all’espansione cinese e un’alleanza più grande della Cina: il partenariato del Pacifico tra 12 nazioni (Tpp) e quello con l’Ue (Ttip). La Cina, spaventata, reagì con l’iniziativa della “Via della seta” per creare una vasta area di influenza con lo scopo di contrastare il disegno di Obama oltre a sabotarlo. Donald Trump ha voluto continuare la guerra con la Cina rendendola più frontale, annullando il Tpp ed andando diretto contro Pechino, e combinandola con il problema, vero, del riequilibrio commerciale tra Stati Uniti e resto del mondo. Ma i suoi consiglieri non sono riusciti a spiegargli che la Cina è ormai parte rilevante del mercato globale e che un’azione di sola guerra economica contro questa destabilizza tutto il sistema con danno per tutte le nazioni. Ora, in base all’evidenza degli effetti controproducenti e recessivi dell’arma doganale a ridosso di un anno elettorale in cui dovrà convincere gli americani a riconfermarlo grazie a buoni risultati economici, si è reso conto che deve cambiare strategia e strumenti.
Se fosse eletto, riprenderebbe la guerra economica con la Cina? Non è escludibile, ma è probabile che questa sarà selettiva per colpire principalmente lo sviluppo tecnologico cinese. E se vincesse un altro, un democratico? Punterebbe probabilmente sul sostegno dei movimenti pro-democrazia in Cina, come già segnalato dal voto alla Camera, su iniziativa di Nancy Pelosi, ma concordata con parecchi repubblicani, per un sostegno al movimento pro-libertà di Hong Kong. Una tale scelta sarebbe considerata una minaccia esistenziale dal regime comunista cinese che ha la priorità di evitare, via dissuasione o compromessi, pressioni democratizzanti. Probabilmente Pechino risponderebbe con la minaccia militare a Taiwan, o simile, per calmare l’America e tale strumento strategico verrebbe annullato. Non si può prevedere in dettaglio, ma è probabile che la guerra tra America e Cina resti sotto la soglia del conflitto armato e si sviluppi come ricerca di alleanze per creare un’area più grande e potente dell’altra per condizionarla. Se così, l’Ue sarà chiave. Se vorrà restare neutrale o perfino pendere verso la Cina qualsiasi presidente americano la spaccherà. Se ri-convergerà con l’America, la Cina sarà sconfitta anche perché la Russia, che teme Pechino, valuterà vantaggioso avere buone relazioni con il sistema euroamericano. Il problema è che Emmanuel Macron sta guidando l’Ue verso lo scenario di terza forza e la Germania, pur temendo problemi di accesso al mercato statunitense, non lo sta frenando, l’Italia passiva e altrettanto ambigua. Infatti i mercati, più che temere la guerra doganale, dovrebbero preoccuparsi dell’incoscienza franco-tedesca e dell’instabilità molto peggiore se l’Europa diventasse terreno di scontro, implodendo. Un cambio di governo più nettamente pro-atlantico a Roma sembra necessario anche per tentare di riportare l’Ue a razionalità o comunque predisporre una collocazione internazionale dell’Italia che la metta al riparo nel caso peggiore.