L’ambasciatore cinese in Italia Li Junhua ha dichiarato, come tanti altri suoi colleghi nelle capitali europee e nel mondo, che “Pechino non starà a guardare”, cioè che reprimerà il movimento per la libertà di Hong Kong se questo non rinuncerà alla rivolta aperta in atto. Si tratta di un messaggio dissuasivo: non osate dare sostegno al movimento per la democrazia. Il punto, lettori, colleghi professori e dei media e politici italiani: possiamo rispondere a questo ambasciatore che, invece, oseremo oppure faremo finta di non vedere per preservare buone relazioni con il Partito Comunista cinese? E se decidessimo di fornire un sostegno al movimento per la libertà ed autonomia di Hong Kong, quale esattamente dovremmo scegliere? Infatti la questione non è solo morale, ma geopolitica.
La priorità del Partito comunista cinese è quella di evitare pressioni democratizzanti interne ed esterne. Nel 1978 Deng Xiaoping inaugurò una politica di concessione della libertà economica allo scopo di rendere la popolazione sufficientemente benestante per evitarne la domanda di libertà politica. A questa soluzione aggiunse quella di rendere la Cina sufficientemente potente per dissuadere pressioni democratizzanti esterne. Dal 2013 l’espansione cinese iniziò a trovare barriere esplicite. Pechino tentò di forzarle, per esempio il progetto di Via della Seta, ma così svelando un progetto egemonico, fino ad allora coperto con attenzione, che ha generato controreazioni. La guerra economica accesa da Donald Trump sta soffocando la Cina in combinazione con una sua crisi interna dovuta alla saturazione dello sviluppo (sovracapacità) e a un buco finanziario, tenuto nascosto, ma stimabile in quasi il 300% del Pil. Xi Jinping ha voluto assumere poteri dittatoriali personali nel 2017, abolendo la collegialità creata da Deng, per gestire la crisi interna. Ora Pechino teme di non poter più finanziare il consenso al regime e che la guerra con l’America comporti l’attivazione di una pressione democratizzante esterna. Recentemente il controllo interno è diventato talmente ossessivo da profilare ogni singolo cittadino per valutarne la conformità. In sintesi, Pechino ha paura e sta aumentando la repressione contro movimenti divergenti o religiosi o etnici o liberalizzanti.
In tale contesto è scoppiata la (seconda) rivolta di Hong Kong. Nel 1997 Londra cedette la colonia a Pechino alla condizione di una salvaguardia delle libertà democratiche e dell’autonomia gestionale (Legge basica) per 50 anni. Pechino ha fatto finta di rispettare l’accordo perché le era utile il controllo una piazza finanziaria con una moneta convertibile. Ma dal 2014 ha cominciato a stringere la presa, suscitando la protesta, prima, degli “ombrelli” e poi la rivolta aperta per la difesa dell’autonomia e democrazia residua di Hong Kong da parte degli studenti. Uno dei leader di questi, Joshua Wong, ha dichiarato di “essere pronto a morire”. Le mafie cinesi locali sono contro gli studenti, così come lo è la comunità degli affari, spaventata dal crollo del 12% della Borsa. Pechino comunica che è pronta a intervenire, cioè ad accettare la richiesta di intervento militare da parte della governatrice, forzatamente o volontariamente collaborazionista, Carrie Lam. Quale sarebbe la giusta posizione dell’Italia e delle democrazie? Da un lato, tecnico, prima di appoggiare i movimenti democratizzanti in Cina, crescenti, bisognerebbe costruire sia un prestatore di ultima istanza grande abbastanza per gestire l’impatto globale di un’implosione dell’economia cinese sia una coalizione per dissuadere/respingere l’offensiva militare che il regime con le spalle al muro probabilmente scatenerebbe, in particolare verso Taiwan. Dall’altro, questa Cina a conduzione nazistoide è insopportabile ed è anche una mina nel mondo per la sua fragilità interna. Pertanto le democrazie volonterose – tra cui non ci sono Francia e Germania - dovrebbero predisporre l’architettura detta e poi puntare ad un cambiamento del regime comunista, ma facendogli capire che è meglio tenti una democratizzazione graduale autonoma prima di subire la pressione esterna o una rivoluzione incontrollabile interna. Il modo migliore per comunicarlo a Pechino, allo stesso tempo calmando gli studenti e salvando le loro vite, è difendere il rispetto della Legge basica di Hong Kong, attivando un monitoraggio e presidio internazionale a favore dello Stato di diritto e delle libertà democratiche residue nella ex-colonia. L’America si sta muovendo in tale direzione su iniziativa della democratica Nancy Pelosi che ha proposto ai repubblicani, alla riapertura del Congresso, un’iniziativa bipartisan “per la tutela dei diritti umani e la democrazia a Hong Kong”. Prego i partiti italiani di destra e sinistra di attivare un’iniziativa simile e la stampa di sollecitarla pur nelle contingenze della crisi politica interna. Temo, però, che le posizioni pro-cinesi del Quirinale e del Vaticano e dei tanti influenzati con incentivi da Pechino (caro Prof. Ernesto Galli della Loggia veramente pensa che i cinesi non siano corruttivi?) o sinceramente convinti che il dragone sia affidabile e benigno, impediscano la partecipazione dell’Italia al concerto delle democrazie volonterose. Quindi chiedo al centrodestra italiano di prendere leadership per chiarire che l’Italia è nel fronte delle democrazie, che inserirà la questione cinese e le soluzioni di alleanza internazionale per risolverla nell’offerta politica e che salverà Joshua e gli altri combattenti per la libertà.