La Casa Bianca ha fatto filtrare l’ipotesi di togliere dalle Borse statunitensi le aziende cinesi nonché di limitare sostanzialmente gli investimenti di soggetti americani in Cina. Si tratta di una minaccia finalizzata a costringere Pechino, che temporeggia, ad arrendersi alle richieste di riequilibrio commerciale e/o di una mossa elettorale per sormontare sul piano comunicativo la procedura di impeachment oppure di una ricalibratura più incisiva della strategia di compressione dell’emergente potere cinese? Cercare di capirlo e derivarne una strategia è rilevante per la politica estera italiana e sua posizione in sede Ue, anche considerando la prossima visita a Roma del Segretario di Stato americano Mike Pompeo che incontrerà Vaticano, Quirinale nonché Chigi e Farnesina.
Sfondo di scenario. Nell’autunno 2017 si è cristallizzata in forma di politica nazionale esplicita una strategia di sicurezza nazionale statunitense, sostenuta da destra e sinistra, che definisce la Cina come nemico principale e la limitazione del suo potere come priorità. Diversamente da quanto creduto dai più, Donald Trump ha dato finora un’interpretazione morbida, quella della sinistra è più dura, di tale linea: cara Cina, arrenditi aprendo le frontiere al mio export, riducendo il sostegno delle aziende di Stato, in generale riequilibrando almeno un po’ il dare e l’avere tra noi e abbandonando lo spionaggio e il furto tecnologico e io ti lascerò vivere, sia mantenendo il tuo accesso al mercato interno statunitense sia non tentando destabilizzazioni. E per convincere Pechino ha usato la pressione dei dazi e il bando per aziende tech cinesi, sperando che bastassero per ottenerne la resa e un conseguente successo per scopi elettorali. Ma Pechino non si è arresa pur tentando di mantenere aperto e lungo il negoziato nella speranza, come poi avvenuto, che la pressione doganale comportasse danni all’America. Il punto: una guerra economica condotta contro un attore che è parte rilevante del mercato internazionale danneggia ambedue i contendenti e, nel caso, la stabilità dell’intero sistema globale. Per inciso, l’Unione sovietica era isolata nell’economia internazionale del tempo e per questo il “contenerla” non poneva problemi di stabilità globale, mentre la pressione condizionante sulla Cina globo-connessa li crea. Con una complicazione per l’America: un regime autoritario ha i mezzi repressivi per resistere ad una crisi economica mentre uno democratico non li ha. E ora Trump sta rischiando la rielezione perché la guerra economica contro la Cina alimenta una tendenza recessiva in forma di incertezza che colpisce investimenti e Borse. Ha due opzioni: un accordo molto limitato con Pechino, che però sarebbe una sconfitta, oppure aumentare la pressione per ottenere la resa della Cina o rovesciare il tavolo di gioco escludendo la Cina stessa, via divieti e sanzioni, da un accesso incondizionato al mercato internazionale, come concesso incoscientemente – o per incentivi - da Bill Clinton ai tempi. Tale esclusione è al momento solo una minaccia, ma potrebbe essere anche vista come una soluzione sistemica. L’idea di escludere la Cina dal ciclo globale per poterla condizionare ha sia un senso logico sia un precedente. Il progetto di Barack Obama, nel febbraio 2013, finalizzato a creare due aree economiche amerocentriche nel Pacifico (Tpp) e nell’Atlantico (Ttip) che escludessero Cina e Russia aveva proprio lo scopo di costringere la Cina a rinegoziare il proprio accesso predatorio al mercato delle democrazie. Pechino, infatti, si spaventò e reagì con forza lanciando la Via della seta per non perdere spazio geoeconomico. Mosca sabotò con mezzi riservati l’accordo euroamericano, per altro mal impostato. In sintesi, ora è probabile che Trump torni su una strategia obamiana intensificata: escludere il più possibile la Cina dal mercato internazionale, aumentandone la demonizzazione nonché accelerando la politica di riportare le produzioni manifatturiere in America, fattore di consenso interno diffuso. Considerando che l’America tipicamente pretende che il suo regime sanzionatorio venga adottato dagli alleati e che senza la convergenza di questi la strategia dell’esclusione non sarebbe efficace, pare realistico prevedere che Washington stia sondando le loro posizioni.
Semplificando, l’Ue e l’Italia potrebbero essere messe di fronte alla seguente scelta: entrare in frizione con l’America per mantenere le relazioni commerciali con la Cina oppure comprometterle e convergere con l’America stessa. La scelta più vantaggiosa per l’Italia e per l’Ue è la seconda, ma chiedendo in cambio un concordato spazio di relazioni commerciali con la Cina e, soprattutto, con la Russia, se meno aggressiva, per non danneggiare troppo l’export europeo. Inoltre ci vorrebbe un accordo G7 per creare un prestatore di ultima istanza grande abbastanza per evitare che l’eventuale implosione della Cina inneschi una depressione globale. Questa è la posizione qui proposta alla valutazione della Roma italiana affinché la sostenga nell’Ue. Ma è più rilevante pregare quella vaticana di considerare la trasformazione della sua postura filocinese, che condiziona quella italiana, almeno in una neutrale per evitare la spaccatura del mondo cristiano nel confronto tra democrazie e Cina nazional-comunista dove le prime potrebbero perdere se non si compattassero e non ritrovassero la guida della croce. Immagino un’alleanza globale delle democrazie con nucleo euroamericano che anche sostenga la liberazione dei cinesi dalla dittatura: croce e luce.