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Carlo Pelanda: 2019-9-15La Verità

2019-9-15

15/9/2019

Ecorealismo vs ecoillusionismo

Il termine “contrasto” del cambiamento climatico, usatissimo nelle espressioni politiche, fa intendere che il cambiamento stesso possa essere fermato. Il concetto di “eco-adattamento”, invece, punta a trasformare i sistemi umani affinché possano gestire la variazione. Il 70% circa della popolazione mondiale vive in aree esposte all’aumento del livello del mare dovuto allo scioglimento dei ghiacci indotto dal riscaldamento globale e tutti nel mondo sono vulnerabili a fenomeni atmosferici estremi per l’aumento di acqua vaporizzata. Il problema è che i sistemi umani attuali si sono adattati ad un ambiente che è rimasto abbastanza stabile negli ultimi due/tre millenni e che ora sta variando – come è cambiato molte volte in milioni di anni - generando fenomeni che eccedono le capacità di quel tipo di adattamento di assorbirli. Il punto: dobbiamo investire risorse per interrompere l’aumento della temperatura o generare, con certa rapidità, un nuovo tipo di adattamento? La differenza tra le due opzioni di ecopolitica è rilevante.

 In quella di “fermare l’universo” c’è la priorità di eliminare le emissioni gassose di origine antropica che, creando un effetto serra, aumentano le temperature. Nei linguaggi di chi la sostiene c’è l’appello a fare presto per, appunto, la credenza di poter riportare il clima alle condizioni di adattamento tradizionali. Ma “fare presto” implica modificare in tempi brevi tutti i cicli industriali, in particolare quello basico del petrolio. Con il mio gruppo di ricerca ho tentato di calcolarne il tasso di sostituzione a livello globale. Forzandola, può avvenire in circa 50 anni, ma con rischi recessivi tali da far temere una depressione globale distruttiva. Tale rischio va comparato con quello di depressione economica dovuto all’impraticabilità dei territori esposti al cambiamento climatico (impaludamento, alluvioni e siccità, collasso dei valori immobiliari, migrazioni da abbandono, ecc.). Una prima stima fa ipotizzare che il secondo rischio potrà avere, eventualmente, impatto sistemico tra un secolo pur producendo danni o costi localizzati prima, per esempio la necessità di trasferire popolazione dalle città o quartieri vulnerabili all’innalzamento del livello dei mari, tema, per esempio, ora in valutazione a Giakarta, Miami, ecc.  Pertanto c’è un lasso di tempo probabile per ridurre il rischio di depressione economica causata da un cambiamento tecnologico-industriale troppo forzato e allo stesso tempo creare trasformazioni territoriali, urbane e infrastrutturali che riducano gli impatti. Inoltre, non c’è la certezza di fermare il riscaldamento o perché la tendenza già innescata ha un’inerzia secolare o perché vi sono anche altre cause di variazione climatica periodica oppure perché vi possono essere fenomeni anomali. Per esempio, se i ghiacci dell’Artico si sciolgono e aumenta l’acqua dolce in quel quadrante marino la Corrente del Golfo potrebbe variare e innescare una glaciazione in America ed Europa settentrionali. Il riscaldamento del permaflost libera emissioni in tale quantità da annullare riduzioni in altri modi. Le emissioni gassose degli animali, poi sono voluminose: li uccidiamo tutti e passiamo al cibo artificiale, mettiamo una tassa sui peti umani? In sintesi, non è certo che il blocco delle emissioni abbia effetto e/o che sia possibile attuarlo in tempo utile.  Nell’abbozzare lo scenario detto, infatti, sono stati consultati parecchi centri di ricerca nelle scienze fisiche, ma la diversità dei loro scenari ha impedito di dare un input solido a quello economico. Proprio questa incertezza, tuttavia, suggerisce che la strategia migliore sia quella di gradualizzare il cambiamento tecnologico-industriale-energetico per non renderlo recessivo e allo stesso tempo riadattare i sistemi umani alle nuove condizioni ambientali, evitando di scommettere tutto sul taglio dei “gas serra”, pur perseguendolo.

Tale scelta sta già prevalendo in centinaia di iniziative dove consorzi di Stati e di città preparano con progetti a lungo termine difese contro l’innalzamento dei mari e fenomeni estremi, nuovi sistemi infrastrutturali, prevenzioni epidemiologiche e nuovi concetti di microclimatizzazione nonché di decarbonizzazione e attenzione alla qualità dell’aria. In particolare, l’adattamento al cambiamento climatico è missione formalizzata nel 2015 dall’Agenzia europea per l’ambiente. Ma nei linguaggi pubblici e sui media prevale l’idea di poter fermare il clima attraverso astinenza industriale: mettiamo a terra gli aerei per annullare le emissioni dei jet e andiamo tutti in barca a vela, forziamo il passaggio all’auto elettrica anche a costo di una recessione del settore con impatto sistemico, ecc. Queste eco-isterie ritardano le concrete e pratiche politiche ecotrasformative e di riorganizzazione adattiva dei sistemi umani che saranno la più grande sfida economica ed ingegneristica nei prossimi decenni. Per questo ci vuole un chiarimento che porti il tema ambientale nel realismo, superando sia l’eco-negazionismo sia il mito di poter fermare il cambiamento climatico solo tagliando emissioni. Tale mito è pompato dalla politica, ideologia a parte, perché semplifica il problema: basta tagliare i gas serra e la questione è risolta mentre mettere a bilancio le risorse per le necessarie ecotrasformazioni di lungo termine sarebbe un inferno sia per i dissensi in materia di allocazioni sia per l’assedio da parte dell’ambientalismo fondamentalista che lo usa come strumento di demonizzazione/distruzione del capitalismo industriale. Temo che il nuovo governo italiano si ispiri al verdismo ideologico e fuffoso e quindi mi permetto di suggerire alle Regioni, con competenza diretta sulla sicurezza territoriale, di avviare loro il chiarimento e i primi scenari di eco-adattamento concreto.    

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