Parecchi lettori preoccupati, per lo più imprenditori e studenti, mi hanno chiesto di fare il punto su quello che considerano il caos globale in atto. Userò una visione analitica di “geopolitica economica”.
Non si tratta (ancora) di caos, ma di una transizione che l’America cerca di mantenere governabile tra un vecchio modello di ordine mondiale a uno nuovo, ma sempre “amerocentrico”. Nel primo l’America finanziò il consenso al proprio dominio permettendo agli alleati di esportare di tutto nel suo mercato senza pretendere reciprocità e lasciando loro la facoltà di ricorrere al protezionismo sociale e commerciale per calmierare tensioni interne. Tale metodo di “commercio internazionale asimmetrico” venne esteso anche ai non alleati dopo la fine del confronto con l’Unione sovietica, in particolare alla Cina, e il deficit commerciale statunitense crebbe a dismisura e spinse tutte le nazioni emergenti, oltre a quelle già emerse, ad adottare un modello di sviluppo trainato più dall’export che da consumi e investimenti interni. Il deficit statunitense appariva bilanciabile da un riafflusso di dollari nel sistema finanziario: gli esportatori compravano debito e azioni americane per dare soldi ai compratori delle loro merci. Ma l’eccesso di concorrenza generò una deindustrializzazione progressiva con l’esito di impoverire la classe media pur la ricchezza finanziaria complessiva crescente. In sintesi, l’ordine mondiale basato sul deficit commerciale statunitense divenne insostenibile già dai primi anni del 2000. Le amministrazioni tentarono riequilibri, ma timidamente Barack Obama e con poca pressione da parte di George W. Bush perché dava priorità al consenso internazionale per la guerra al terrore. Donald Trump vide un’opportunità di consenso nel proporre un metodo duro di riequilibrio commerciale e reindustrializzazione dell’America, ottenendolo dagli impoveriti e da chi temeva di diventarlo. Parallelamente, la Cina, reagendo all’idea obamiana del 2013 di creare due aree di libero scambio amerocentriche nel Pacifico e con gli europei con il chiaro scopo di limitare l’espansione di Pechino, non riuscì più a nascondere la sua vocazione di impero globale sostitutivo di quello americano, rendendola esplicita ed aggressiva con l’iniziativa di Via della seta (Obor). Ora la “grande strategia” statunitense punta sia al riequilibrio commerciale con il resto del mondo sia a tagliare le ali alla Cina.
Il problema è che tutte le nazioni, come detto sopra, hanno modelli basati sull’export e forti protezioni interne e la maggior parte ha difficoltà enormi a cambiare il modello stesso aprendolo al commercio simmetrico ed equo. In Europa ci sarebbero rivolte, in Cina l’implosione con contagio globale. Pertanto, l’intento strategico americano ha limiti oggettivi di fattibilità. L’amministrazione Trump, infatti, sta cercando di calibrare bastone e carota per ottenere lo scopo, ma senza scassare il sistema globale. Tale calibratura, però, non è stata ancora perfezionata e ciò genera la sensazione di caos in atto. Ma in realtà prevale il tentativo di ottenere il risultato senza scossoni eccessivi. Inoltre è osservabile una maggiore disponibilità statunitense a concessioni commerciali in cambio di posture anticinesi. Usiamo tale ipotesi per valutare schematicamente i singoli casi caldi.
America e Cina. La seconda tenta di non arrendersi, ma Trump vuole dimostrare che deve farlo alzando le pressioni. Ma se Xi proporrà una resa, Trump la concederà rispettando i requisiti “salvafaccia” del primo. In caso contrario chiuderà l’accerchiamento della Cina per forzare ancora di più, ma sempre lasciando aperta alla Cina stessa una soluzione, anche per evitarne un’implosione che scasserebbe il mercato globale e l’America a ridosso delle elezioni presidenziali del novembre 2020.
America e Russia. Nel recente incontro di Soci la prima ha riconosciuto alla seconda, di fatto, lo status di partner (il significato di accordarsi su una lista di divergenze è la volontà di trovare un piano di collaborazione), movimento precursore per staccare Mosca da Pechino, e partecipare all’accerchiamento della seconda, in cambio del riconoscimento di una sfera di influenza russa autonoma alla pari.
America ed Ue. La pressione della prima sulla seconda sul piano del riequilibrio commerciale dipenderà da quanto Washington avrà bisogno politicamente degli europei per comprimere la Cina. Comunque, ne avrà un certo bisogno e sarebbe razionale per gli europei soddisfare con aperture le richieste americane. Lo stesso per il Giappone. E sembra che lo stiano facendo, anche l’Italia rientrata nei ranghi atlantici dopo deviazioni, cosa che aumenta la probabilità – pur non ancora prevalente - di un ripristino del G7 come luogo di una rinnovata alleanza.
America e Iran. Al netto della tutela di Arabia e Israele, il caso ha un valore dimostrativo-dissuasivo per altri: ammorbidimento se l’Iran si arrende, cambiamento di regime via crisi economica interna se non lo fa.
In conclusione, c’è un rischio di caos, anche basato su una sopravalutazione americana della propria forza, ma al momento prevale la strategia realistica di costringere con metodo diplomatico-negoziale alla resa i nemici, alla convergenza gli avversari e al riallineamento gli alleati. Mia posizione per ridurre tale rischio? Ricostruire l’alleanza euroamericana, estenderla ad altre democrazie creando una qualcosa di più grande e più potente della Cina sia per condizionarla al rispetto degli standard occidentali sia per reggere l’impatto se questo regime autoritario implodesse: nova pax.