Il G20, concepito per includere la Cina nella governance mondiale – di fatto accordo G2 con l’America - in cambio del suo impegno a sostenere la domanda globale quando le locomotive statunitense ed europea “gripparono” a causa della crisi del 2008, ha perso, dal 2012, il ruolo coordinativo per la volontà statunitense di fermare l’espansione dell’influenza cinese quando il ruolo di Pechino non fu più necessario, ma sta conquistando quello di forum di consultazione per limitare i conflitti. L’interdipendenza oggettiva tra nazioni consolidata durante la globalizzazione post-bellica americocentrica, infatti, non si è ridotta mentre il cambiamento conflittuale nell’architettura politica del mercato internazionale la sta compromettendo. Ma potrà il G20, essere un forum efficace per tale ruolo? Difficile, pur sempre utili consultazioni. Il punto: la ricostruzione di un centro di governance globale, con potere di definire standard mondiali, è molto improbabile. Il motivo non è solo la guerra tra America e Cina, che non finirà anche nel post-Trump pur possibili tregue, ma anche la crescita in tutte le democrazie del consenso al protezionismo e al nazionalismo per loro impoverimento percepito o reale. Ciò implica una riduzione notevole e durevole del ruolo dell’America come sistema importatore in perenne deficit commerciale mentre le nazioni con modello economico dipendente dall’export non riusciranno a modificarlo senza crisi interne. Con una precisazione: nelle democrazie tale crisi rischia di essere destabilizzante mentre nei regimi autoritari meno anche per la loro possibilità di bilanciarle con aggressività esterna. Pertanto il problema principale è salvare le democrazie ed evitare che i regimi autoritari ricorrano a guerre. Chi sta scenarizzando questo problema, per lo più, raccomanda di salvare il salvabile della vecchia globalizzazione. Ma è soluzione debole. Più forte è quella di creare una nuova globalizzazione selettiva, cioè un mercato a integrazione crescente tra democrazie, guidato da un G7 allargato, basato su standard comuni che favoriscano la ricostruzione della ricchezza di massa in ogni democrazia stessa. Questa è anche la soluzione migliore per le democrazie esportatrici, Italia e Germania in particolare, ma anche per l’America che potrà condizionare la Cina via scala del suo blocco economico senza dover ricorrere ad eccessi conflittuali. Sarà difficile per le democrazie europee e asiatiche negoziare relazioni commerciali simmetriche con l’America, ma l’evidenza dell’utilità per tutte loro promette di superare gli ostacoli, gradualmente.