L’America sta cambiando e sia alleati sia nemici stanno cercando di capire in quale direzione. I commenti enfatizzano una presunta conduzione umorale ed erratica di Donald Trump. In realtà questi intuisce che la popolazione statunitense ha nuovi bisogni di sicurezza e che i costi dell’impero sono insostenibili, ma fa fatica a portare la politica interna ed estera verso soluzioni perché chi dovrebbe confezionarle in forma di strategie e politiche discontinue tende a pensare in modi continuisti, per esempio la limitazione della riforma fiscale. In sintesi, la caratteristica principale della conduzione corrente dell’America è che l’intuizione di dover cambiare non trova strumenti applicativi e personaggi esecutivi corrispondenti, motivo dei continui cambi nello staff e governo. Ciò, oltre al narcisismo, porta Trump a muoversi in modi solitari che danno la sensazione di sua inadeguatezza. Per esempio, ha intuito che la decisione della Fed di rialzare il costo del denaro era sbagliata in questa fase del ciclo economico, ma twittandolo invece di esercitare una persuasione silenziosa “stile Quirinale” (è un complimento) ha costretto la Fed a persistere nell’errore per preservare l’immagine della propria indipendenza. C’è del disordine, ma è solo in superficie. Sotto di esso, infatti, c’è una strategia ed è questa che è importante per gli alleati capire.
La priorità di Trump è assicurarsi la ricandidatura alle elezioni presidenziali del 2020. Il muro per indurire il confine con il Messico piace ad una parte rilevante dell’elettorato militante repubblicano. Trump vuole soddisfarlo per prevenire la concorrenza interna dei repubblicani centristi e “classici” e la loro eventuale tentazione di accordarsi con i democratici per farlo fuori, sostenendo la procedura di impeachment (destituzione). Per tale motivo ha preso il rischio di non firmare la legge di bilancio fino a che il Congresso non vi inserirà il finanziamento del muro, circa 5-6 miliardi di dollari, cosa che nel sistema statunitense implica il blocco immediato delle istituzioni federali per le funzioni non essenziali, il cosiddetto “shutdown”. In realtà tale azione di ricatto è tipica da parte di un presidente che vuole far passare un’iniziativa sgradita al Congresso: dal 1981 ci sono stati 12 “shutdown”, con durata da qualche giorno a tre settimane. Quello che importa è che Trump mostra con determinazione la volontà di essere rieletto, con certa possibilità di farcela. Pertanto è probabile che resti interlocutore fino al 2024.
Ciò porta l’attenzione alle recenti dimissioni del generale James Mattis da ministro della Difesa, motivate dal disaccordo con l’azione di disingaggio di Trump da Siria e, parziale, Afghanistan. Ritirismo, poter dire alla classe media che non ci saranno più bare per i suoi figli? Anche, ma qui si intravede una strategia precisa. L’uscita dalla Siria ha come motivo il recupero dell’alleanza con la Turchia, limitandone la collaborazione con la Russia, obiettivo considerato più importante della tutela dei curdi che Ankara vuole massacrare. Certamente Mattis, da leale militare, non ha voluto essere complice dell’abbandono degli eroici alleati curdi e afghani, accettando la realpolitik di sacrificare un amico per un beneficio maggiore. Ma forse c’è di più. L’occupazione di un territorio costa sangue e soldi. Inoltre, al seguito delle truppe di una democrazia c’è la televisione e questa impedisce l’impiego di tutta la forza disponibile. Infatti l’America non è riuscita a vincere alcuna guerra dal 1945 in poi. Quando si mette un soldato che costa 350mila dollari nel mirino di un guerrigliero nemico che ne costa 150, compreso il Kalashnikov, e per mettere in prima linea un combattente c’è bisogno di almeno sette persone di supporto mentre al nemico ne basta una o perfino nessuna, e in più non si può bonificare un territorio con mezzi di annichilazione totale, pur avendoli, è evidente che non si può attuare con tali mezzi militari un presidio efficace. Questo concetto fu già fonte di nuova strategia nell’Amministrazione G.W. Bush: ingaggiare gli alleati in operazioni territoriali, fornendo loro solo supporto remoto. Poi l’evento del 2001 costrinse Bush a ricorrere ad invasioni e il costo sbancò l’America, le bare ne chiusero il sentimento. Barack Obama e Trump lo hanno annotato e avviato il ritiro. Ma il secondo ha probabilmente intuito che anche la dottrina Bush di sostegno remoto ad alleati non funziona perché non permette il controllo strategico dell’azione, per esempio in Libia e Yemen. Infatti si vede nei think tank americani molta ricerca su nuovi e diretti mezzi di superiorità globale non-territoriali, però osteggiata da un apparato militare e industriale che non vuole rinunciare alla tradizione. Ma anche Trump non sembra rinunciare: ha recentemente istituito lo “Space Command”, cioè la costruzione di una superiorità suborbitale, orbitale ed esospaziale per distruggere dall’alto qualsiasi nemico che sta sotto. In sintesi, le democrazie possono fare solo la guerra aerea, robotizzata, limitando le operazioni territoriali a brevi raid e dotandosi di armi lanciabili a distruzione massiva. L’America a conduzione Trump sta muovendosi in questa direzione. Non è ritirismo, ma volontà di impero con nuovi mezzi di superiorità. Prova ne è il nervosismo di Vladimir Putin. Per l’Italia la sfida è diventare un alleato non abbandonabile e militarmente supertecnologico.