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Carlo A. Pelanda
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Carlo Pelanda: 2018-12-2La Verità

2018-12-2

2/12/2018

Allarme rosso

Dalla metà degli anni ’90 cerco di portare l’attenzione sulla “questione cinese” nell’ambito del conflitto tra capitalismo democratico ed autoritario per la supremazia nel pianeta, e sugli standard globali, avvertendo che il secondo, spinto dall’enorme Cina comunista, ha la maggiore probabilità di vincere.

Nel 1994, in occasione di una visita al nuovo Centro cinese di studi strategici osservai l’emergere di volontà e capacità imperiali. Ipotizzai che la Cina sarebbe passata da una politica di influenza solo regionale ad una globale. Controllai questa sensazione nell’ambito della relazione di ricerca tra l’italiano Centro Militare di Studi Strategici e l’Ufficio Scenari (Net Assessment) del Pentagono, trovando non solo conferma, ma anche uno scenario che mostrava come nel 2024 la Cina sarebbe diventata la prima potenza economica e militare del pianeta. Nel 1995-96, tuttavia, Bill Clinton aprì il mercato statunitense, e quindi il mondo, all’export massivo cinese, senza condizioni. Corruzione, ingenuità? Il Pentagono, comunque, preparò gli strumenti di superiorità per contrastare quella cinese. In quel periodo posi la “questione cinese” a Giulio Tremonti, mentre, con Edward Luttwak, scrivevamo “Il fantasma della Povertà” (1995). Condivise la preoccupazione, che aveva da tempo, ma preferì pensare a soluzioni protezioniste. Le trovai deboli perché ormai la Cina stava diventando parte integrata del mercato globale con un modello trainato dall’export e il suo contenimento via barriere avrebbe implicato una crisi interna con contagio mondiale. Per questo motivo cercai una strategia di condizionamento della Cina più efficace e meno rischiosa: formare un mercato globale integrato delle democrazie, a guida G7, capace per maggior scala di costringere la Cina a comportamenti convergenti per averne accesso. Nel 1996, quando presentai questo concetto a Tokyo, suscitai molta attenzione nei locali, ma un cinese importante, in sala, silenziosamente mi irrise. La Cina, infatti, ormai non aveva limiti nel collocarsi al centro del mercato globale: la frittata,  era già stata fatta. Nel 2006 pubblicai “La grande alleanza” che dettagliò il concetto detto sopra come progetto Nova Pax. In presentazioni agli strateghi dell’Amministrazione Bush non piacque loro l’idea di multilaterizzare l’impero americano. Inoltre avevano bisogno della Cina per le priorità antijihadiste. Infatti nel 2007 Pechino convocò una moltitudine di dittatori africani e diede loro armi e soldi in cambio del loro voto all’Onu e dell’accesso alle risorse. Ciò alzò l’attenzione di John Mc Cain che nella campagna del 2008 propose una “Lega delle democrazie”. Ma perse contro Barak Obama che, avendo bisogno della Cina per sollevare la domanda globale depressa dalla crisi finanziaria, cercò una convergenza G2 con Pechino, di cui il G20 fu il contenitore. Poi, nel 2013, generò un progetto condizionante simile a quello di Nova Pax. Ma fallì, anche perché la Cina contropropose un’incentivante Nuova via della seta, ottenendo adesioni da molte democrazie. Donald Trump sta cercando di condizionare la Cina, ma l’America è ormai troppo piccola per riuscirci da sola e deve evitarne l’implosione per non subire l’impatto di una crisi mondiale. In sintesi, l’azione americana senza una coalizione a sostegno non è sufficiente.     

Per questo ritengo che il progetto Nova Pax sarebbe una strategia più efficace, capace di condizionare la Cina, senza ricorrere alla guerra: un mercato globale delle democrazie più grande della Cina stessa. In America gli strateghi ci stanno (ri)pensando. Ma non in Europa perché gli interessi mercantilistici prevalgono sul timore di vedere sconfitta la democrazia. Se America ed Europa restano divise, la Cina vincerà. Per tale motivo, cioè per suscitare una reazione delle democrazie che eviti tale destino, nonché un neutralismo dell’Ue, ritengo si debba chiarire quanto mostruoso sia il regime cinese: campi di concentramento, “Laogai”, in realtà di sterminio dei dissidenti o divergenti; controllo totale delle interazioni via internet e telefono degli individui e capacità condizionante dei loro comportamenti gestita da migliaia di cibermilitari; il voto di lealtà al regime – derivato da un ciberprofilo - che determina l’accesso alle migliori posizioni sociali;  un commissario politico del Partito comunista in ogni azienda “privata”; apparato globale di influenza, ecc. Molte democrazie, tra cui quella italiana, tacciono perché Pechino è abile nell’offrire vantaggi di breve termine e nascondere l’obiettivo imperiale di lungo. Ed è abilissima nel ricattare, per esempio, facendo finta che i cinesi condannino spontaneamente un marchio per dare un segnale ad una nazione mentre l’azione è generata da un centro strategico.  Ecco perché i media nelle democrazie dovrebbero intervenire con più informazioni su come funziona il regime nazionalsocialista cinese all’interno e su cosa fa all’esterno, motivando le ragioni di un’alleanza tra esse più grande della Cina.

(c) 2018 Carlo Pelanda
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