Trovo improprio l’uso del “termine” populismo, prima di tutto, perché non è distintivo. Ogni offerta politica in una democrazia – che abbia una vera ambizione di governo e non solo di testimonianza - deve essere necessariamente “populista”, cioè prendere atto degli umori dell’elettorato per sperare di accedere al potere di indirizzo. Ciò è talmente ovvio da suscitare una domanda: perché tanti politici e commentatori sia italiani sia esteri usano, e per lo più con intento spregiativo, tale termine? Discutendone con alcuni ho rilevato la preferenza per istituzioni democratiche molto mediate, dove il voto popolare è rielaborato ed interpretato da partiti per depurarlo da idee irrazionali. In particolare, quelli di sinistra hanno espresso con forza l’idea che il popolo debba essere educato e controllato da un partito, contro l’idea di partito stesso che si faccia educare e controllare dagli istinti popolari di contingenza. In sintesi, hanno svelato una preferenza verso l’autoritarismo: per loro la sovranità popolare è una bestia da domare. Pertanto una prima spiegazione dell’uso così diffuso di un termine improprio riguarda la reazione rabbiosa e spaventata di persone che ritengono giusto e utile guidare le masse invece di ascoltarle, e che temono la disintermediazione da parte di nuove élite sia a sinistra sia a destra. Banale. Più seria, invece, è la preoccupazione dei tecnici che temono un’eccessiva adesione della politica ad una domanda sociale poco istruita e che non capisce come funziona veramente il mondo.
A questi, alcuni colleghi sia italiani sia statunitensi, ho risposto come segue. E’ vero, in base alle ricerche in materia, che la maggior parte degli elettori nelle democrazie non riesce a definire i propri interessi per gap cognitivo e tende a divergere dal realismo. Ma è anche vero che gli elettori attraverso il voto esprimono un disagio specifico e segnalano difetti di sistema da correggere. Il “tecnico”, a cui sempre di più il “politico” delega la gestione proprio perché il sistema da governare è di una complessità enorme, invece di preoccuparsi della ribellione popolare contro gli standard in atto dovrebbe analizzare i motivi del disagio e trovare modi realistici da suggerire al “politico” stesso per correggerlo. Per esempio, il fatto che il consenso si sposti verso offerte assistenziali e/o protezionistiche deriva dall’impoverimento che ha ridotto negli elettori la speranza di accedere ad un capitalismo diffuso e, in parecchi, persino le possibilità di sopravvivenza. Se questa gente ti manda il messaggio di disagio e insofferenza votando una nuova sinistra e/o una nuova destra, punendo quelle tradizionali per la loro incapacità di risolvere i problemi, tu la chiami “svolta populista” da disprezzare e condannare oppure lo definisci come un segnale per la correzione urgente del sistema? Per esempio, in America, un tecnico deve scandalizzarsi per l’erraticità aggressiva di Trump, definendolo populista pazzoide, oppure aiutarlo a trovare un modo meno destabilizzante per ridare speranza economica a quel 50% di classe media che è scivolata nella povertà nell’ultimo ventennio, per difetti di politica interna ed estera, e che ha votato sia lui a destra sia il superprotezionismo di Sanders, a sinistra, eliminando le componenti centriste dei due partiti maggiori? O, in Italia, un tecnico deve proporre di aumentare l’avanzo di bilancio, a scapito degli investimenti, per rassicurare il mercato sulla sostenibilità del debito oppure ricevere il segnale dal voto che l’equilibrio di bilancio vada trovato in modi che permettano l’espansione economica e il sostegno agli impoveriti, studiandoli invece che rifugiarsi nel conformismo e chiamando populisti quei politici che stanno cercando di far quadrare il cerchio per dare alla gente la speranza che ha chiesto? Oppure, se la gente non vuole immigrati allo sbando per le strade, tantomeno islamici, il politico che trasforma in azioni esecutive questa volontà popolare è uno che la rappresenta o un populista immorale?
Quando in una democrazia il consenso va a soluzioni radicali vuol dire che i governi precedenti, al netto di turbolenze mondiali, hanno sbagliato e gli elettori lo segnalano con il voto. Che la correzione sia stabilizzante ed efficace o meno dipende dalla capacità di politici e tecnici di trovare soluzioni positive. Chiamarli con senso di spregio “populisti” è la cosa più semplicistica che si possa fare perché sottovaluta il meccanismo complesso di correzione continua delle democrazie attraverso il voto e l’elezione di nuove élite. La via giusta è aiutarle in questa missione, o per lo meno non demonizzarle, affinché il successo nella correzione dei difetti eviti poi una degenerazione della democrazia in autoritarismo o in disordine. La mancanza di tali riflessioni in coloro che usano il termine “populista” ne mina la credibilità.