Da mesi analisti e diplomatici europei dell’area occidentale si chiedono se la politica statunitense nazionalista e poco conciliante nei confronti degli alleati sia una “trumpata” effimera oppure una svolta duratura. L’ipotesi di chi scrive è che il successore di Donald Trump potrà eventualmente addolcire i toni, ma manterrà la linea americanista. Ciò implica un cambiamento della politica estera italiana.
In realtà la svolta risale al 2000 quando il Partito repubblicano guidato George W. Bush propose la “Dottrina dell’interesse nazionale” contro quella dell’impegno globale perseguita da Bill Clinton. Tale dottrina, poiché terminata la Guerra fredda, prevedeva l’ingaggio diretto degli Stati Uniti nel mondo solo per questioni di interesse nazionale vitale, mantenendo il potenziale per farlo, e un sostegno solo indiretto agli alleati che avrebbero dovuto provvedere autonomamente alla loro sicurezza. L’Amministrazione Bush, a seguito dell’attacco nel settembre 2001, sospese la dottrina e tornò allo schema di presidio globale diretto perché ciò fu interpretato come interesse vitale. Paradossalmente, Barak Obama ha ripreso la linea Bush, però interpretandola in modi confusi e “ritiristi”. Trump ha ripreso la Dottrina dell’interesse nazionale in modi chiari e decisi aggiungendo l’enfasi sul riequilibrio commerciale con il resto del mondo e sul contenimento dell’espansione cinese. Come Bush, Trump non vuole rinunciare all’impero, ma punta a ridurne i costi per renderlo sostenibile. In sintesi, il ritorno all’americanismo dopo la parentesi globalista è ormai un tratto duraturo della politica americana, sia a sinistra – si pensi al protezionismo di Sanders e dei sindacati - sia a destra, dovuto al rifiuto dell’elettorato statunitense di pagare i costi della sicurezza e del traino economico del pianeta. Tali costi sono stati e sono tali da giustificare un’America che si ribella al mondo da essa stessa creato? Il finanziamento dell’alleanza antisovietica permettendo agli alleati di esportare in America senza pretendere reciprocità è costata – stime di Foreign Affairs negli anni ’90 - più di un punto di Pil per decenni. Oltre al costo di questa “strategia del commercio asimmetrico in gap” per scopi geopolitici, il bilanciamento del deficit commerciale attraverso un ritorno dei flussi finanziari in America non ha compensato l’eccesso di concorrenza esterna, impoverendo circa il 50% degli americani. Il rifiuto continuo degli alleati alla proposta di condividere i costi della gestione del mondo, formulata per la prima volta da Henry Kissinger nel lontano 1973, ha generato un’antipatia marcata nell’elettorato e nei politici statunitensi che permette a Trump di usare toni durissimi contro gli alleati stessi. In sintesi, non si tratta di una “trumpata”, ma di una linea duratura di riaggiustamento delle relazioni tra America, esasperata, e resto del mondo.
Per l’Italia, non potendosi fidare di Francia e Germania, l’alleanza con l’America è essenziale sul piano militare ed economico. Per mantenerla, Roma dovrebbe diventare un presidio pro-atlantico entro l’Ue e spingerla verso una ri-convergenza euroamericana. I passi principali di tale azione sono la creazione di un trattato economico (riprendendo in forma semplificata il Ttip) che abolisca i dazi tra ambedue le parti per arrivare a una sostanziale reciprocità commerciale e un rinnovamento della Nato che aumenti il contributo europeo, le collaborazioni industriali-militari ed estenda sul piano globale il raggio della missione di difesa per rendere più importante la Nato stessa. Ciò implica l’abbandono del progetto francese di “sovranità europea” a favore di un rafforzamento del sistema euroamericano, cioè di un modello di “Aquila a due teste” nella speranza – meno fantasiosa di quanto oggi appaia – che poi diventi a tre teste con l’inclusione della Russia. Parigi non lo vorrà. Ma se Roma insiste con una linea determinata, considerando che Berlino è e resterà indecisa, la tendenza euroamericana potrà avviarsi, evitando rotture. In particolare, bisogna evitare che Washington trovi più vantaggioso far implodere un’Ue ostile per riprendere un’influenza diretta sull’Eurasia occidentale allo scopo di contenere l’espansione cinese e convincere la Russia a staccarsi da Pechino. Pertanto la missione di Roma, in particolare dopo la Brexit, è salvare l’Europa pilotando la ricostruzione di un’alleanza atlantica che ne moltiplichi, per interesse nazionale, la piccola forza politica per sostenere il ruolo di potenza industriale globale, facendo un favore anche agli altri europei messi a rischio dalla tipica imbecillità strategica della Francia e dal provincialismo geopolitico della Germania, comprese Parigi e Berlino stesse. Il governo appare orientato per istinto verso questa direzione. Bene, ma suggerisco di trasformare l’istinto in strategia organizzata per realizzarla.