Il mercato fatica a prezzare il rischio Corea del Nord. Ciò è dovuto alla complessità del caso, ma anche a un’eccessiva varietà di opinioni tra cui molte sbagliate. Quella più sviante riguarda l’idea che Kim Song Un sia irrazionale. Pyongyang, in realtà, sta attuando una strategia razionale in riferimento al suo obiettivo. Questo è la preservazione del regime in una situazione dove il nuovo dittatore valuta che la strategia di quello precedente non possa più funzionare. Nel recente passato il regime aveva portato la dissuasione nucleare solo a livello minimo, pur mantenendo elevata quella convenzionale, accettando aperture economiche e diplomatiche per ottenere il riconoscimento da parte degli Stati Uniti e una riduzione progressiva delle sanzioni. Sono testimone di questa stagione perché l’istituto di ricerca Globis, University of Georgia, che ho co-diretto fino al 2015 insieme al Prof. Han Park, fu ingaggiato – su spinta del secondo - per molti anni in una missione di “Track 2 Diplomacy”, cioè di facilitazione da parti private di relazioni tra Stati non dialoganti, nel caso le due coree e Stati Uniti. Ma il nuovo autocrate ha valutato che la pacificazione avrebbe contaminato il regime chiuso, destabilizzando il consenso in misura superiore alla capacità di controllo, alla fine favorendo l’annessione da parte di Seoul. Inoltre, l’America non era disposta a dare premi per questo rischio del regime, per esempio rinunciando alla condizione di denuclearizzazione prima di togliere sanzioni. Probabilmente in accordo con la Cina che teme la riunificazione coreana, Kim Song Un ha deciso una strategia di rafforzamento interno del regime che implica la compattazione nazionalista attraverso l’enfasi su una minaccia esterna combinata con la dimostrazione di potenza. Sul piano della coesione interna sta funzionando, anche perché l’economia nordcoreana è riuscita a riprendersi dopo la crisi alimentare del passato. Sul piano esterno Pyongyang, in realtà, non persegue un riconoscimento formale di status nucleare, perché lo ritiene impossibile e controproducente per la tenuta del clima interno di guerra, ma uno “di fatto” che apra una prassi segreta di consultazioni dove il regime possa ottenere vantaggi in cambio di calibrature della minaccia. Anche per Cina e America tale soluzione è vantaggiosa, rendendo più probabile un rassicurante equilibrio del terrore che un’escalation bellica, al netto di errori nella gestione del primo. In conclusione, l’analisi del rischio dovrebbe valutare la probabilità di questi errori più che quella di volontà belliche.