Molti analisti si chiedono come mai l’inflazione resti così bassa in dollari e in euro nonostante gli sforzi di reflazione. Ma prima che arrivi una risposta, sta prendendo probabilità l’ipotesi che l’inflazione possa salire più rapidamente di quanto oggi previsto, per due motivi: l’effetto della riforma fiscale negli Stati Uniti ora in iter parlamentare accelerato e un aumento del prezzo del petrolio sia come conseguenza indiretta di questa sia per pressione di alcuni produttori oltre che per possibili disordini geopolitici. L’ipotesi è ancora vaga perché il livello di detassazione stimolativa in America è poco chiaro e la relazione tra domanda e offerta d’idrocarburi non lascia ancora prevedere un gap rialzista forte. Tuttavia, s’intravede nella nebbia il rischio che un balzo dell’inflazione inverta la politica espansiva della Bce e, soprattutto, comporti un rialzo dei costi di rifinanziamento e servizio del mostruoso debito dell’Italia, riaprendo i dubbi del mercato sulla sua sostenibilità. Il problema potrebbe scoppiare proprio nel momento in cui i governi tratteranno, nel 2018-19, il consolidamento dell’Eurozona con il rischio di penalizzazione depressiva dell’Italia in ripresa ancora molto fragile e con una governabilità probabilmente debole. L’atto di riconciliazione tra politica di bilancio e progetto di riforma fiscale approvato dal Senato statunitense a fine ottobre lascia uno spazio di extradeficit di 1.500 miliardi complessivi per 10 anni per coprire il gap di gettito specifico. Entro questo spazio, deciso per non tagliare la spesa pubblica corrente e gli investimenti militari, la tassazione sulle imprese dovrebbe passare dal 35% corrente al 20% e quella sulle persone fisiche ridursi sostanzialmente. Il progetto fiscale, tuttavia, anche cancella molte deduzioni e ciò rende difficile calcolare il reale impatto sulla crescita e il tempo di riequilibrio contabile del bilancio. Una prima stima, comunque, porta a prevedere – al netto di crolli borsistici – un biennio di forte crescita dei consumi, combinato con tensioni salariali. Un aumento dell’inflazione in dollari comporta un incremento del prezzo del petrolio e dell’inflazione importata nell’Eurozona non contenuto pienamente dall’eventuale rialzo del valore dell’euro. Qui c’è il rischio per l’Italia, amplificato dalla volontà di Arabia e Russia di alzare i prezzi petroliferi. Lo scenario è ancora vaghissimo, ma il pericolo potenziale è tale da richiedere ora una maggiore attenzione della politica italiana per operazioni straordinarie e rapide di riduzione del debito.