Le risorse per gli investimenti in tecnologie militari sono in riduzione e le loro allocazioni dispersive, fatto che indica l’assenza di una strategia e che questo governo, come i tre precedenti, non abbia colto l’importanza di tale settore: l’Italia è a rischio di deindustrializzazione militare. Nel dopoguerra la politica italiana, contrastando la sconfitta, volle mantenere un modello di difesa centrato su un’industria militare nazionale non solo per difendere l’occupazione ed evitare la dipendenza da forniture esterne, ma anche per usare lo strumento militare nelle relazioni internazionali e nelle penetrazioni commerciali. Molti sarebbero sorpresi se leggessero nei vecchi archivi di fine anni ’50 i progetti governativi italiani per navi nucleari, in realtà per sommergibili, nonché di missili evoluti così come di un nucleare civile in realtà comunicazione di una potenzialità militare. Furono cancellati dalla reazione di Francia e Stati Uniti e dal disordine politico interno creatosi dal 1964 in poi. Ma restò comunque negli ambienti politici, militari e sindacali l’accordo di tutelare un’industria militare autonoma. Questa, infatti, si sviluppò anche grazie al consenso generale per prendere risorse dal ministero per l’Industria – oggi Mise – e non solo dal bilancio Difesa, raggiungendo picchi di eccellenza in alcuni settori, ma con unità industriali troppo piccole. Nel 2002 il Governo Berlusconi sostenne la strategia di P. Guarguaglini di trasformare Finmeccanica (oggi Leonardo) da preda in predatore globale, trainando l’indotto nazionale, in occasione di un tentativo francese di comprarla senza spendere cassa. La strategia aveva come scopo l’insediamento entro il perimetro del Pentagono, collaborare con gli europei senza però esserne condizionati, diventare “prime” mondiali in alcuni settori (elettronica, aerei tattici, elicotteri, ecc.) e grazie a questa forza avere peso sia nei consorzi internazionali ormai necessari a costruire sistemi costosi e nelle relazioni con gli alleati. Dopo il 2011, i governi non sostennero più questa azione con finanziamenti adeguati e non rinnovarono la strategia di rendere l’Italia potenza tecnologica militare (traino per quella civile). Ora il governo ha perfino accettato una Difesa europea senza caricare di adeguati investimenti l’industria militare nazionale per rafforzarla negli accordi, lasciando così a quella francese e tedesca il primato, con danno geopolitico e d’impoverimento tecnologico sia militare sia nell’indotto civile residente in Italia. Prevenire tale rischio è un atto urgente d’interesse sistemico.