La difficile gestione del potere emergente della Cina passa attraverso tre differenti opzioni. Nel paese di Mao il comunismo esiste solo e ancora per mantenere il potere e la possibilità di un vasto mercato attrae l’Occidente. Sarà in grado Bush di far propria la virtù di Quinto Fabio Massimo il “Temporeggiatore”?
Verso la metà degli anni ‘90 l’ufficio per il Net Assessment (scenari futuri) del Pentagono - diretto dallo stesso Andrew Marshall che in questi giorni sta preparando il piano di modernizzazione delle forze armate statunitensi - stabilì che nel 2025 la Cina avrebbe avuto una scala economica e tecnologica tale da poter seriamente competere con la forza americana. Tale prospettiva pose agli Stati Uniti il problema di definire una nuova strategia nei confronti di Pechino. Le alternative erano tre: (a) confronto duro e contenimento (come nel caso della ex-Urss); (b) cooptazione nella comunità internazionale fortemente condizionata alla democratizzazione interna della Cina ed alla sua assunzione di comportamenti che diano fiducia; (c) cooptazione più morbida, cioè meno vincolata a condizioni. L’Amminstrazione Clinton scelse la terza opzione, quella più sbilanciata sul lato della “carota” (al punto da generare il sospetto di essere stata penetrata dal lobbying di Pechino). Tale scelta in realtà, più che decisa, è stata determinata da fatti in essere ancora, in parte, validi. La Cina, con il suo miliardo e 250 milioni di abitanti, costituisce un sesto dell’intero mercato globale e ne è la parte emergente a più rapida crescita e modernizzazione. Un confronto duro con la Cina potrebbe avere conseguenze economiche dannose per tutto il sistema mondiale. E ciò esclude il ricorso alla prima opzione, permettendo una scelta solo tra le altre due. Sotto la pressione delle lobby occidentali con interessi industriali e finanziari nell’area cinese, dove le banche europee e le multinazionali americane sono molto esposte, la politica occidentale ha aperto la strada di cooptazione della Cina nelle istituzioni globali, tipo il Wto (Organizzazione mondiale del commercio), dettandole condizioni molto morbide e non mettendo nel pacchetto negoziale dei paletti utili a moderarne l’aggressività espansiva: rinuncia all’uso della forza contro Taiwan, limiti al riarmo e all’espansione territoriale (per esempio l’occupazione del Tibet). Tale approccio ha creato la sensazione che si fosse regalato troppo alla Cina e che le si fosse dato un messaggio sbagliato di eccessiva debolezza dell’Occidente, come certamente è avvenuto nel 1997 “mollandole” Hong Kong senza tutelare i diritti politici dei cinesi anglofoni dell’ex-colonia britannica.
Il libero mercato è comunista
Il regime di Pechino è formalmente comunista, ma in realtà le sue èlite possono dirsi nazionaliste. L’elemento “comunista” è mantenuto solo come strumento di controllo verticistico, autoritario (spesso violento e repressivo) e centralizzato per ordinare un territorio frammentato in centinaia di lingue diverse e pervaso da spinte separatiste di molte regioni. Infatti il Partito comunista cinese, che nel 1978 cominciò una modernizzazione accelerata ora arrivata alla trasformazione di quasi metà del paese in una società industriale relativamente evoluta, ha stabilito nel suo Congresso del 1997 (e riaffermato recentemente) che il libero mercato è la miglior via per realizzare gli obiettivi del socialismo. Tale formulazione, solo apparentemente sorprendente, vuol dire: vi diamo i soldi, in cambio non chiedeteci la democrazia. Questa dottrina è emersa a Pechino a seguito dell’analisi del fallimento dell’Unione Sovietica: economia sbagliata e troppa spesa militare. Questo pragmatismo ha impressionato positivamente sia gli investitori sia i governi occidentali che, dalla fine degli anni ’80, hanno scommesso sullo sviluppo cinese, i primi pompandolo con massicci investimenti. E li ha resi disponibili ad accettare le ragioni di Pechino: lasciateci fare una democratizzazione lenta perché se no ci destabilizziamo, riconoscete il nostro diritto storico alla dignità del riconoscimento di grande potenza e a riprenderci ciò che ci hanno tolto gli europei durante il periodo coloniale. Ma dalla metà degli anni ’90 Pechino ha preso coscienza della sua forza emergente e della debolezza americana nel regolarla. Ciò ha dato più spazio al nazionalismo latente, rendendolo il collante principale del gruppo dirigente nominalmente comunista. Soprattutto, da qualche anno la Cina annusa la possibilità di poter “sbattere fuori” dal Pacifico gli americani, di prendere il dominio del teatro asiatico e grazie a questo condizionare il resto del mondo. Uno dei sintomi più inquietanti di tale svolta espansiva lo si vede nei programmi militari. Ufficialmente Pechino resta ancorata alla dottrina della “deterrenza minima”, cioè ad un arsenale nucleare nominale utile solo a farla riconoscere potere mondiale. In realtà negli ultimi anni ha impostato, semisegretamente, un riarmo nucleare, spaziale, aereo e marittimo di entità tale da poter effettivamente annullare, probabilmente prima del 2025, la forza americana.
Bush impari “a fare melina”
Per questo motivo l’Amministrazione Bush si trova a dover ribilanciare sul “lato del bastone” l’eccesso di carota finora usato nei confronti di Pechino, cioè a dover praticare la seconda opzione detta sopra. Ma non sarà facile. L’eventuale pressione condizionale economica, se eccessiva, manderebbe in crisi lo sviluppo cinese e con questo il resto del mercato globale. La pressione sul lato della democratizzazione, se portatrice di conflitti interni, rischierebbe di creare una frammentazione del sistema cinese e, quindi, una crisi economica per altra via. Soprattutto, il pensiero strategico cinese ha un concetto del tempo molto diverso da quello occidentale: opera su tempi lunghissimi, sulle tendenze e non sugli eventi (quelli che Napoleone, per capirsi, cercava in un’unica battaglia decisiva). Per tale motivo è molto difficile inquadrare Pechino in una logica negoziale. Per imparare a farlo, Washington dovrà usare un certo tempo di apprendimento. In tale ottica, il recente incidente diplomatico va visto come un’occasione utile ad ambedue le parti per stabilire un codice di reciproca comprensione e misurare la rispettiva forza. Per questo non si può escludere che Bush dovrà praticare alcuni elementi della prima strategia – contenimento e confronto – per rendere possibile l’esercizio della seconda opzione, la più razionale.