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Carlo Pelanda: 2000-7-27Tempi

2000-7-27

27/7/2000

Con Bush l’impero sarà forte e determinato, ma dovrà usare più la carota che il bastone

Al momento è più probabile che George W. Bush vinca le elezioni presidenziali del prossimo autunno. Quali cambiamenti apporterà alla politica estera statunitense? Così li annuncia Condoleezza Rice, suo probabile Consigliere per la sicurezza nazionale ed attuale responsabile del team di politica estera (Richard Perle, Paul Wolfowitz e Robert Zoellick) del candidato repubblicano: "il presidente dovrà affrontare un lungo lavoro di riparazione" (Foreign Affairs). Con questo i repubblicani vogliono dire che l’amministrazione Clinton ha seriamente compromesso la stabilità internazionale e gli interessi statunitensi dal 1992 in poi. La priorità non è tanto quella di costruire nuove case quanto quella di riparare i buchi in quella attuale. Clinton viene accusato di incompetenza. Ha firmato un trattato sull’abolizione dei test nucleari senza porsi il problema di controllarne l’applicazione. Un altro trattato, quello di Kobe sulle politiche finalizzate a ridurre l’inquinamento globale e l’effetto serra, limita seriamente gli Stati Uniti, ma non vede la firma dei paesi emergenti, tra cui la Cina, che sono e saranno sempre di più i maggiori contaminatori ed ecodistruttori del pianeta. Ha condotto la guerra in Kosovo senza determinazione e con poca attenzione alla preparazione di una forza militare adeguata. In generale, ha praticato una via molto illusoria e publicitaria nei tentativi di costruire accordi internazionali. Il fallimento del vertice israeliano-palestinese ospitato e mediato a Camp David, in effetti, ne è un esempio. Le parti non erano ancora pronte per accordi definitivi e delicati sul piano del consenso interno. Soprattutto, nessuno crede alle garanzie future date da un presidente a fine mandato. Si aspetta quello nuovo. Il vecchio può aprire la strada per domani, consolidare qualche particolare. Ma Clinton ha voluto forzare la mano perché ha il problema di non avere in tasca alcun successo internazionale che lo possa mettere nei libri di storia. E teme di essere ricordato solo per il non lusinghiero affare Lewinski. Così la questione della pace nel Medio Oriente si è complicata di più invece che semplificarsi. In effetti dobbiamo concordare con Rice che di buchi Clinton ne ha lasciato parecchi nel fragile tessuto della Pax americana in transizione dal dominio incontrastato durante la Guerra fredda al clima molto più paludoso di oggi e del prossimo futuro. Come verranno coperti?

Il cambiamento più avvertibile potremo vederlo nel modo in cui gli Stati Uniti tenteranno di risolvere il problema maggiore che hanno dalla fine della Guerra fredda. Semplificando, i cinesi ed altri asiatici vogliono sbattere fuori gli Stati Uniti dall’Asia, gli europei dall’Europa. I secondi, in realtà (Francia a parte) non hanno un piano esplicito di de-americanizzazione. Ma la costruzione europea è un fattore oggettivo che riduce la presa americana sul nostro continente. Lasciamo da parte qui lo scenario asiatico e concentriamoci su quello europeo che ci interessa più da vicino.

L’amministrazione Clinton non ha preso decisioni finali sull’atteggiamento statunitense nei confronti della formazione di un’Unione Europea. Ha perseguito un approccio "sì, ma". Per esempio, fatevi pure una difesa vostra, "ma" che questo non implichi un depotenziamento della Nato. In realtà il caso europeo è uno dei problemi più delicati per gli americani perché la loro progressiva espulsione dal vecchio continente non è fatta in modo ostile, quindi non hanno un casus belli tale da permettere una secca replica "imperiale". Inoltre hanno un certo interesse che vi sia sufficiente europa per semplificare i rapporti e rendere più efficiente la cooperazione per la sicurezza globale. Anche l’euro non è visto male in quanto potrà operare – quando tra qualche anno sarà assestato - come seconda moneta di riferimento mondiale evitando che il dollaro sopporti da solo un sforzo superiore alle sue forze. Ma se ci sarà "troppa" Europa, gli Stati Uniti si troveranno di fronte ad un concorrente globale che potrebbe dare il via allo smontaggio della Pax americana. Cioè un soggetto indipendente e grande che può fare da "Terzo" nelle relazioni con la Cina, con la Russia e con il Giapone, incentivando questi ultimi ad attuare politiche più ardite in chiave antiamericana. O comunque tali da rendere più costoso il loro controllo da parte di Washington. Quindi il prossimo presidente degli Stati Uniti, chiunque sarà, dovrà prendere necessariamente decisioni finali. Che non riguarderanno tanto la priorità strategica di restare in Europa ed influenzarla, ma i modi per farlo.

Certamente i repubblicani sapranno dire con più forza e credibilità il "ma" o il "se" dopo il "sì". E forse qualche "no". Ma è proprio questa maggiore durezza che potrebbe creare dei problemi. Per esempio, un requisito per mantenere in piedi la Nato, cioè lo strumento di dominio geopolitico statunitense negli affari europei, è quello di renderla compatibile con l’emergente sistema di difesa europeo. Ciò significa il dover fare un’attenta gestione di dettaglio. Per esempio, mai porre la Germania in un dilemma di lealtà tra atlantismo ed europeismo; costruire la fiducia reciproca mai creando brutte sorprese agli alleati; integrare gli armamenti in modo da renderli interoperabili con il problema che quelli di superiorità assoluta americani sono tecnologicamente molto più avanzati di quelli europei; di conseguenza, integrare anche il cruciale settore dell’industria militare dei due continenti. Sarà una partita difficilissima che dovrà essere condotta da ambedue le parti in punta di piedi, con i guanti. E molto probabilmente lo scenario asiatico richiederà ancor più raffinatezza. In conclusione, gli Stati Uniti non hanno la possibilità di praticare un via "dura", unilaterale, tarata sull’esclusivo interesse nazionale e sulla politica di potenza per rabberciare l’Impero. E questo fa nascere la curiosità sul come Bush – figlio e padre – e la Rice concilieranno le parole dure e determinate che dicono ora in campagna elettorale con la gestione pratica del delicato scenario qui frettolosamente schizzato.

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