Il caso africano ripropone alla politica occidentale il dilemma di scegliere tra "realismo etico" e "realismo pragmatico" o, più precisamente, tra "interveniamo e cerchiamo di mettere tutto in ordine" e " lasciamoli fare, che si arrangino". Valutiamo ambedue le alternative e cerchiamo le argomentazioni per sceglierne una.
Prima di tutto, vediamo lo scenario specifico. Come noto l’Africa subsahariana, orientale ed australe sono caratterizzate da un picco di disordine politico che si manifesta in forma di guerre aperte tra Stati (Etiopia ed Eritrea), in conflitti tra etnie o guerre civili, (sotto i riflettori in questi giorni quello della Sierra leone e l’assedio degli agricoltori bianchi nella ex-Rhodesia), in crisi alimentari e sanitarie (dappertutto). In sintesi, tutta l’Africa Nera sta mostrando di non saper gestire la sovranità politica ottenuta dalla fine degli anni ’50 in poi a seguito della decolonizzazione. L’esito è: centinaia di milioni di persone alla fame, in preda alle malattie ed esposte alla violenza. Anche dieci anni fa era così. Ma c’era la speranza che il disordine fosse a termine, una sorta di periodo di apprendimento dopo il quale si sarebbero formate classi politiche modernizzanti e dotate di capacità ordinatrici. Ora è chiaro ed evidente che gli africani, se lasciati soli e senza guida, sono solo capaci di suicidarsi. E tale dato è emerso con maggiore chiarezza dopo il fallimento della politica del "rinascimento africano" sotto la tutela stimolativa dell’Amministrazione Clinton. Inoltre il programma di riduzione o cancellazione del debito estero per i Paesi africani più poveri, oltre al fatto di essere più nominale che sostanziale, è destinato al fallimento perché le risorse così liberate probabilmente non andranno in mano ai bisognosi, ma ai signori della guerra o gruppi di interesse. In conclusione, l’Africa non sa gestirsi ed è ingestibile dall’esterno con metodi morbidi, cioè rispettosi della sovranità degli Stati. Questo è il dato realistico.
Cosa facciamo? I governi occidentali, preso atto della situazione sopra schematicamente descritta, hanno deciso di fatto l’approccio di "realismo pragmatico". Che gli africani si ammazzino pure. Stati Uniti e Francia mantengono un certo livello di attenzione, ma solo per difendere alcuni loro interessi geopolitici selettivi, in poche aree. In sostanza, il teatro africano (a parte l’area settentrionale islamica) è di fatto abbandonato. Da una parte questa è una scelta razionale dettata dai problemi di fattibilità di un qualsiasi intervento forte per riordinare le cose. I leader neri urlerebbero contro la neocolonizzazione e l’Occidente si troverebbe delegittimato sia a livello di opinione pubblica interna sia su quello internazionale. Soprattutto, l’Occidente non è unito al punto di predisporre un piano unitario di "Pax africana" e di realizzarlo in modo coeso ed efficiente (si pensi al caso della Somalia). Comprensibile che per questi motivi abbiano scelto l’abbandono del caso. Ma sono le stesse buone ragioni di "realismo pragmatico" che hanno generato, nel passato, decisioni prospetticamente sbagliate tipo quella del patto di Monaco (1938) o il ritardo nell’intervenire militarmente nei Balcani. Appunto, talvolta il realismo pragmatico sul piano tattico comporta il rischio di "imbecillità strategica". E, proiettando la situazione attuale, l’Africa lasciata a se stessa potrebbe diventare una mina globale nel futuro: migrazioni, esportazione di terrorismo e di epidemie, luogo di scontro con l’Islam, interventi d’emergenza (tipo salvare i bianchi dalla vendetta dei neri), nascita di Stati banditi, ecc. Poiché tale rischio è crescente, comincia a risultare razionale un’opzione strategica più lungimirante anche se ciò comporta l’assunzione di forti rischi nel presente per ottenere un vantaggio maggiore nel futuro. Strategia che definisco di "realismo etico" anche perché si ispira alla priorità della salvezza degli individui, escluso il loro abbandono qualsiasi sia la ragione pratica.
Se gli africani non sono in grado di governarsi da soli è evidente che l’Occidente deve tornare in quei luoghi e produrre in ciascuno di essi un riordinamento stabile. Come? Non possiamo aspettarci che la politica formale dei governi occidentali, per i motivi detti sopra, possa passare facilmente dalla negligenza all’interventismo. Tuttavia c’è un enorme spazio per "operazioni private" in grado sia di forzare i governi ad agire sia di produrre effetti ordinanti nei paesi chiave dell’area. Per esempio: finanziamenti a leader e forze politiche modernizzanti; costruzione di presidii sanitari, educativi, economici ed infrastrutturali (comunicazioni e media) a standard occidentale. L’idea è quella di confederare le associazioni private dell’Occidente affinché convergano, in modo coordinato ed indipendente dalla politiche governative, in un progetto integrato di Pax africana. La società civile può fare quello che ai governi è impedito. Se questa ipotesi ha un minimo di consistenza, allora il primo passo sarebbe quello di tentare di costruire il nucleo di governo internazionale di tale confederazione di associazioni private. In mente ho solo il nome - Free Community (Libera Comunità) - ed il Fondo finanziario che la renderebbe operativa. Il resto del progetto, per svilupparsi, ha bisogno di un primo segnale di apprezzamento da parte dei potenziali protagonisti, associazioni cristiane in primo luogo, centro morale dell’Occidente.