Vorrei avere Ida Magli al mio fianco nel momento in cui ci sarà da combattere duramente contro l’espansionismo islamico, ma la lascerei fuori, pur rispettandone la qualità scientifica, dal think tank che deve disegnare le strategie per la gestione interna e l’eliminazione globale di tale pericolo. Spiego perché.
La Professoressa Magli, in sostanza, nega che vi possa essere un “islamico” buono separabile da quello “cattivo”. Poiché tutti gli islamici sono “cattivi” l’unica cosa da fare - inferisco – è quello di alzare barriere attorno alla loro area separandola totalmente dalla nostra. Se uno di questi la passa lo facciamo fuori o lo rimandiamo nel recinto. Se nell’area si sviluppa una minaccia, nuclearizziamo e non se ne parli più. Scusandomi della semplificazione, questa mi pare la “strategia” implicita nelle affermazioni di Ida Magli.
Sul piano scientifico, la stimata antropologa sembra ritenere che il codice culturale islamico sia immodificabile. Tale analisi è frequente negli studi di antropologia influenzati dallo strutturalismo: una volta formata una struttura questa tende a restare inalterata. Quella della religione islamica, inoltre, appare fortissima. Certamente vi è una tale tendenza inerziale dei sistemi culturali, ma vi è anche l’evidenza scientifica che la mente resti sempre aperta al cambiamento. Inoltre la modificabilità di un sistema culturale dipende da fattori sociologici e politici e non solo psicologici, cioè dalle idee dominanti/conformanti in una società. Io sono d’accordo che il codice islamico sia, per semplificare, “cattivo” nel senso espresso da Magli, ma non sul fatto che sia immodificabile. Quando nel think tank che frequento abbiamo studiato, nell’autunno del 2001, le possibili strategie per la gestione della minaccia islamica, abbiamo subito valutato la modificabilità potenziale o meno del codice culturale e, trovatala, abbiamo visto la possibilità di poter distinguere tra islamici buoni e cattivi, non perché – attenzione - i primi esistano già, ma perché possiamo “crearli”.
Sul piano del realismo geopolitico, poi, non è fattibile una perimetrazione escludente di un miliardo e mezzo di islamici. E’, invece fattibile separarli tra “buoni” (compatibili con l’Occidente) e “cattivi”, allearsi con i primi e sostenerli nel conflitto con i secondi. Senza mezzi termini, la minaccia islamica va gestita generando una guerra civile al suo interno (movimenti democratizzanti, incentivi secolarizzanti, gestione simbolica, ecc.). Sul piano della politica di immigrazione certamente dovremmo restringere il numero di islamici che entra ed allargare quello di immigrati con cultura compatibile, per esempio slavi cristiani, subsahariani educati dai missionari, ecc.. Ma sarà difficile riuscirci. Quindi non ci resta altro che dividere i “buoni”, incentivandoli e premiandoli, dai cattivi ottenendo che i primi siano uno strumento di controllo e di assimilazione dei secondi. Rompere le loro comunità.
La critica di fondo a Magli è che pensa ad una strategia difensiva mentre il problema va gestito attaccando. L’Islam va diviso e condizionato con i codici occidentali, conquistando menti e facendole combattere contro gli irriducibili entro l’Islam stesso e nelle colonie islamiche che si stanno formando da noi. Perché di tale strategia di attacco non si parla a sufficienza? In realtà è in atto, ma la adotta solo l’America verso l’esterno (e l’interno), gli europei no. Inoltre se ne parlassimo troppo metteremmo in difficoltà i governi islamici che aiutano nelle contingenze l’azione occidentale. E comunque in Europa i concetti che ho qui abbozzato sono indicibili perché suscitano scandalo ed indignazione da parte del moralismo prevalente. Infatti pagherò un costo di immagine per aver scritto queste cose apertamente (si dicono e fanno solo a porte chiuse), ma lo pago volentieri se servirà ad avvertire gli intellettuali che stanno giustamente mobilitando la gente per la guerra difensiva di restare freddi, tecnici, evitando in particolare di comunicare che tutto l’Islam sia il nemico. La strategia giusta è quella di dividerlo per non trovarcelo tutto contro.