Ora è possibile fare una prima valutazione del comportamento dei governi e delle istituzioni finanziarie del mercato globale di fronte all’emergenza dell’attacco terroristico. Il risultato è migliore di qualsiasi attesa, anche delle più ottimistiche. Va subito detto, affinché non sembri un’apologia conformista, che nei momenti di emergenza i sistemi tendono a comportarsi meglio che nella normalità e che quando questa ritorna le prestazioni tornano anch’esse meno buone. Ma pur scontando questo noto fenomeno, ne abbiamo tanti di fatti che sia confermano la sensazione positiva sia fanno ben sperare per il futuro. Vediamoli.
Tutti si aspettavano che le banche centrali si coordinassero, a caldo, per dare la giusta liquidità ad un mercato globale spaventato che la richiedeva (e che in parte la ha usata). Ma nessuno pensava che le autorità monetarie americana, europea, giapponese, e tante altre, agissero come un orologio unico, senza sbavature. Tralascio i dettagli che sono molto tecnici e salto alla conclusione di fondo: il sistema di governo monetario è molto più integrato ed integrabile di quanto si poteva pensare osservandolo nella normalità. Ciò fa intendere che il pilastro finanziario del mercato planetario sia molto solido e quindi capace di fornire la giusta stabilità nel futuro, anche in caso di nuovi ed altri guai.
Per qualche giorno, dopo l’11 settembre, c’è stato un serio rischio che la politica sbandasse verso azioni irrazionali. Inizialmente, l’amministrazione Bush ha usato un linguaggio di forte unilateralità e bellicità illimitata. Il pericolo di una guerra di religione tra Islam e cristiani covava nei sentimenti a stento trattenuti dalla ragione strategica. Molte nazioni dell’Alleanza occidentale, nonostante la solidarietà nominale, stavano pensando più a come defilarsi che a come cooperare. E tanti governi islamici moderati erano forzati a distanziarsi perché timorosi che un errore di nervosismo occidentale scatenasse i molti fondamentalisti nei rispettivi Paesi, destabilizzandoli. Poi, in poco tempo, tutto lo scenario si è messo su binari razionali e “freddi”: l’America ha ridotto il tasso di unilateralità aprendosi ai criteri degli alleati, tra cui quello di minimizzazione della violenza; si è fatta una distinzione essenziale (anche per evitare catastrofi relative al prezzo del petrolio) tra Islam e terrorismo. Per inciso, tutti noi sappiamo che l’Islam è una religione di conquista che non ammette il compromesso, quindi ha ragione chi la teme e invoca una grande vigilanza. D’altra parte, bisogna resistere alla tentazione di semplificare tale problema e, piuttosto, puntare alla cooperazione con le ali più secolarizzate. Cioè mettere l’Occidente in grado di decidere quale sia l’Islam buono e quale cattivo, cooptando il primo. Questa grande operazione, finora, è riuscita grazie alla veloce correzione dell’azione diplomatica in tale direzione. Notevole sul piano tecnico perché il bastone, pur esercitato con certa forza, è rimasto nell’ombra ed è prevalsa la carota, cioè, oltre ai premi, il non chiedere nulla agli islamici cooptandi che loro non potessero fare. E presto per dire se continuerà in questo modo eccezionale (perfino l’Iran, ostile a parole, nei fatti ha assicurato la propria neutralità, che nel caso della bonifica antiterroristica è di fatto un appoggio in quanto i gruppi più pericolosi – per esempio gli Hezbollah - sono proprio finanziati e sostenuti da Teheran). Ma l’avvio è ottimo e lascia sperare che sarà utile sia per finalmente arginare il conflitto tra Israele e palestinesi sia per impostare una futura architettura politica di pace complessiva molto più solida di quella attuale. Ovviamente non c’è alcuna sincerità o consapevolezza morale in tale quadro cooperativo. Ma proprio questo fatto, cioè il riuscire a comporre tanti interessi diversi e tutti cinici, è il segnale che esiste una grande capacità per costruire nel futuro molta più stabilità di quanto le teorie del realismo (geo)politico ora predicono.
Infine, una lezione illuminate viene dai comportamenti economici dei governi. Il mercato ha avuto una pesante caduta sul piano della fiducia e senza interventi politici sarebbe entrato in una brutta crisi. Ma la politica è riuscita a tenere sotto controllo il sistema immettendo quel denaro pubblico nell’economia che l’incertezza stava distruggendo (soprattutto in America). La lezione – lo dico da liberista - è che non ha alcun senso contrapporre Stato e mercato come recitano molte teorie. Il primo serve quando il mercato non ce la fa, e talvolta capita. Nei casi in cui il secondo va bene, il primo non occorre che intervenga ed è meglio che non lo faccia per motivi di efficienza. Appunto, questo e gli altri sono casi evidenti dove il pragmatismo si dimostra chiave vincente. E motivo concreto di ottimismo per il futuro.