L’Italia non sta entrando adesso in una crisi competitiva, come appare dalle dichiarazioni di sindacati, sinistre, commentatori e gruppi di interesse connessi, ma ne sta ora cominciando ad uscire. Tale verità viene abilmente oscurata da chi vuole nascondere la catastrofe economica causata nel passato dal modello statalista-consociativo per poterlo riproporre agli elettori. Anzi, viene perfino invertita imputando al governo Berlusconi una crisi competitiva che, in realtà, ha ereditato dal passato e che sta risolvendo con crescente efficacia. Ma i falsari sono sfortunati perché è sufficiente dare uno sguardo alla storia economica dell’Italia per ripristinare la verità.
La capacità sia industriale sia di incentivazione ed attrazione degli investimenti cominciò a declinare dai primi anni ’70 fino ad arrivare ad una crisi competitiva strutturale attorno al 2000. Le cause furono: aumento progressivo delle tasse; incremento della rigidità del mercato del lavoro e dei suoi costi diretti ed indiretti; instaurazione di un protezionismo sociale e corporativo che limitò la concorrenza nel mercato interno rendendolo generatore di inflazione strutturale e di barriere a nuove iniziative; blocco, dagli anni ’80, della modernizzazione infrastrutturale; sistema educativo e di ricerca ideologizzati e burocratizzati di qualità decrescente; disordine politico e sindacalismo ideologico che causarono il collasso della finanza pubblica (debito); assistenzialismo distruttivo nel Sud; eccesso, negli anni ’90, dei costi energetici e dei servizi a causa di monopoli non regolati, ecc. Ciò portò alla progressiva sparizione della grande industria più esposta alla concorrenza internazionale sul piano delle condizioni di sistema. Si salvò l’emergente piccola impresa perché riuscì ad autolimitare i costi fiscali (elusione), sindacali (micro-scala) e sostituì con capacità di innovazione la mancanza di tecnologia di base. Nei primi anni ’90 il sistema di economia “formale” era già del tutto fallito a causa di un modello sbagliato, instaurato dai centrosinistra succedutisi dal 1963 in poi, ma tale crisi fu bilanciata dall’economia “informale” che aveva aggirato il modello stesso. A metà degli anni ’90 lo scoppio della concorrenza globale per costi, tecnologia e capacità di scala cominciò a colpire anche la piccola impresa. E nel momento in cui si sarebbe dovuto avviare con urgenza la riorganizzazione competitiva del sistema per adattarlo alla globalizzazione andò al governo una sinistra che, invece, non volle farla. Fatto aggravato dall’adesione ad un sistema europeo che perseguiva la stabilità monetaria a scapito della crescita e che impediva la flessibilità per le riforme di efficienza. Tra il 1996 ed il 2000 l’accelerazione del declino fu nascosta da un anomalo picco di crescita dell’economia (finanziaria) globale, bolla poi sgonfiatasi. Ma i dati depurati mostrano chiaramente che proprio in quegli anni l’Italia andò in crisi competitiva totale. Mi piacerebbe che Ciampi raccontasse questa storia a premessa dei suoi autorevoli appelli per il rilancio economico.
Nel 2001 il governo Berlusconi trovò un’economia italiana destrutturata, decapitalizzata ed imbrigliata da vincoli interni ed esterni eccessivi. Avviò l’unica politica che si può fare in casi del genere, con un qualcosa in più: anticipare a parole l’ottimismo utile a ricostruire la fiducia (consenso, investimenti) per attuare riforme concrete. In base ad un’analisi che trovava il capitale intellettuale e sociale del Paese ancora capace di un enorme attivismo economico se create le condizioni per favorirlo: meno tasse su famiglie ed imprese, meno vincoli e costi sistemici, riqualificazione del territorio. Ma gli eventi del 2001, e conseguente crisi globale fino al 2003, minarono la ricostruzione della fiducia. La minoranza in Parlamento, ma maggioranza nei poteri che fanno opinione, riuscì a sabotare la componente simbolica della strategia di rilancio. L’agenda delle riforme reali fu rallentata sia dalle contingenze del ciclo esterno sia da una temporanea perdita di coerenza riformatrice nella coalizione. Parallelamente, nel 2003 e 2004, il cambio dell’euro artificialmente alto penalizzò le esportazioni italiane nel globo e la crisi della Germania ridusse quelle intraeuropee. L’impoverimento prodotto dall’Ulivo, misurabile come raddoppio del numero dei bisognosi totali, generò la priorità di dare ossigeno alle famiglie più nei guai azzerando o riducendone, per quanto europossibile, le tasse. Ma il rilancio economico è in moto dal 2001 con mille atti che stanno iniziando a dare effetti, tra questi la modifica legislativa che ha favorito la riduzione della disoccupazione da oltre il 9% al 7,3%. Il problema che favorisce la falsificazione della realtà riguarda il fatto che il ritmo del rilancio è rallentato dalla rigidità dell’eurosistema, dall’enormità della crisi strutturale ereditata, complicata dal debito cumulato nel passato, e dal sabotaggio comunicativo che mina l’ottimismo. Ma la formula del rilancio, che ha già funzionato per fermare il declino precedente, sta mostrando di poter invertire la crisi competitiva storica man mano che riuscirà ad essere applicata a pieno regime. In conclusione, l’Italia sta uscendo dal disastro più lentamente di quanto si sperava, ma ne sta uscendo perché la formula riformatrice funziona. Questa è la verità.