I prossimi mesi saranno cruciali per il destino del mercato globale. A due livelli. In termini di ciclo economico è la prima volta, dagli anni ’70, che tutte e tre le locomotive mondiali - Usa, Giappone ed Europa – sono contemporaneamente in panne. Ciò potrebbe innescare qualcosa di veramente brutto, ora non previsto dagli scenari. Sul piano politico, poi, si apre una stagione in cui le potenze occidentali, che hanno i mezzi economici e strategici adeguati (G8), devono decidere quale tasso di interventismo applicare per mettere in ordine un pianeta dove si aggravano i focolai di disordine: (a) economico (Giappone, Turchia, Argentina, Indonesia, ecc.); (b) geopolitico, per esempio Israele contro il mondo arabo, aumento della proliferazione militare dappertutto; (c) e dove si acuiscono nuove e vecchie emergenze globali, quali l’Aids (attualmente incontenibile), la situazione disastrosa di circa 60 Paesi poverissimi e di circa un miliardo e mezzo di persone che sono di fatto morti viventi, il mutamento climatico. La matrice che descrive il complesso dei problemi detti è complessa e non sintetizzabile in un articolo. Ma tentiamo di vederne il punto essenziale.
Mentre le previsioni già annusano il rimbalzo dell’economia americana, anche se la tendenza recessiva deve ancora sfogarsi del tutto, nel primo semestre del 2002, i dati correnti non mostrano speranze per il Giappone. Il nuovo governo – Koizumi – ha promesso tanto, ma finora fatto niente. L’economia nipponica è bloccata in un sistema opaco di intrecci consociativi tra banche, imprese e politica (Keiretsu). Che le ha tolto flessibilità, impedendole di rimbalzare attraverso riforme di efficienza dopo la crisi finanziaria (sgonfiamento della bolla immobiliare nel 1990-91) e recessione del 1992. La disoccupazione sta salendo, per la prima volta dal 1953, verso il 5%. Ma, soprattutto, le banche hanno crediti inesigibili per un trilione di dollari, equivalente a due milioni di miliardi di lire e rotti. Il debito pubblico è proiettato, nel 2005, verso il 200% del Pil. Il problema è che il Giappone è il più grande creditore netto del pianeta. Se i risparmiatori nipponici ritirassero di colpo i loro investimenti in valuta estera ci sarebbe una crisi finanziaria globale. Peggiore se saltassero le banche (e non si può escludere). Il punto è che il Giappone - le sue èlite politiche - non sembra potercela fare da solo ad uscire dall’emergenza. Cosa dovrebbero fare le altre potenze occidentali che rischiano il contagio?
L’eurozona è in crisi endemica di crescita economica per problemi di modello simili a quelli nipponici: troppo protezionismo sociale interno. Ma ce la può fare da sola a riformarsi ed è finanziariamente più solida. Qui il problema sono i tempi: la difficoltà politica di cambiare li allunga. E per i prossimi anni resterà solo l’America a tirare tutto il convoglio mondiale. Difficilmente potrà riuscirci senza importare gravi squilibri interni (per esempio, deficit commerciale). In sintesi, le incertezze di breve-medio periodo aprono uno scenario inquietante nel lungo termine dove la locomotiva americana non ce la farà a trainare il resto, europei lenti, Giappone sotto acqua. Non è una prospettiva riassicurante ed evidentemente bisognerà fare qualcosa di nuovo per ristrutturare il sistema. Ma cosa?
La risposta è complicata dal fatto che l’amministrazione Bush mostra una crescente reticenza ad occuparsi del mondo come l’America ha fatto dal 1941 in poi. C’è la paura, francamente non infondata, di assumersi costi e rischi militari insopportabili. Per fortuna ciò non ha impedito al Fondo monetario di intervenire decisamente per sostenere finanziariamente la Turchia (crisi bancaria) e l’Argentina (crisi di sistema). Ma il secondo caso richiede un aiuto esterno che vada oltre l’attuale tamponamento. E non si vede. Così come la crisi israeliana, se lasciata a se stessa, potrebbe sfociare in guerre molto più estese, globalmente destabilizzanti. Evidentemente europei ed americani dovrebbero cooperare di più per convincere i secondi a mantenere l’impegno del passato. Ma i primi restano troppo introversi.
Questo lento allargarsi della frattura tra Usa ed UE sta anche pregiudicando la concentrazione delle risorse utili al contenimento delle emergenze globali sul piano dell’alimentazione, sanità ed ecologia.
A quali condizioni le cose potrebbero andare meglio? Due, in sostanza: (1) un maggiore accordo tra i G8 per mettere in comune più risorse economiche e di sicurezza da proiettare sul pianeta; (2) la definizione di standard di buona economia per ciascun Paese e di un sistema negoziale per realizzarlo nel tempo in relazione ad ogni situazione specifica. Ovvio? A parole sì, ma nei fatti no. Significa prendersi dei nuovi rischi e costi enormi, anche per noi italiani che siamo parte dei G8. Per esempio, per curare e sfamare la gente in un Paese dove un dittatore è la causa del male non c’è altro modo che detronizzarlo. Siamo pronti a mandare i nostri militari, a pagare i costi di ricostruzione di quell’area, a sostenere l’accusa di essere dei neocolonialisti? Siamo disposti ad accettare riforme competitive, meno garantiste, che ci facciano crescer di più e grazie a questo ci rendano capaci di trainare le economie dei Paesi in via di sviluppo? La costruzione del futuro ordine mondiale comincia nelle case degli elettori dei Paesi occidentali, sta nelle risposta che sapremo dare a questa domanda: siamo pronti a pagare il prezzo per contribuire ad ordinare un mondo che solo noi abbiamo i mezzi per governare?