Parliamoci chiaro, in particolare tra noi liberisti, avanguardia del popolo produttivo che vive di mercato e non di Stato. Abbiamo di fronte il seguente scenario, con due punti critici: (a) la sinistra, in base a ciò che comunica, sembra preparare un’offensiva sia di piazza sia di palazzo con lo scopo di rovesciare il governo Berlusconi, tipo il golpe del 1994, solo con maggiore concentrazione sui moti di piazza, e probabilmente su una parte della magistratura, per compensare l’assenza della risorsa golpista di fatto, pur non di forma, che a quel tempo fu Oscar Luigi Scalfaro; (b) l’economia è ancora in convalescenza e per il 2002 sarà stagnante e darà meno gettito alle casse dello Stato, per altro svuotate in modo opaco dai trucchi contabili dell’Ulivo dal 1999 in poi. Poiché il nostro interesse principale è quello di una detassazione, oltre che liberalizzazione generale dell’economia, il più intensa e veloce possibile, sono preoccupato del fatto che tale situazione potrebbe ritardarla o renderla troppo blanda. Ho piena fiducia, come penso voi, nella capacità del governo Berlusconi di mantenere la rotta delle riforme, ma non possiamo nasconderci la delicatezza del momento. Tante vostre e-mail nei mesi passati mi chiedevano come valutare il Patto per l’Italia, cioè il compromesso tra politica liberalizzante e la difesa degli interessi assistenziali. Molti di voi ricorderanno che risposi sostenendo che dovevamo accettare tale compromesso, pur deprimente per un liberista, in quanto era inevitabile dover trovare il giusto equilibrio tra riformismo e pace sociale. Se la seconda si rompe pagheremmo costi economici diretti e indiretti, per esempio la minore attrattività dell’Italia per i capitali di investimento, che supererebbero i benefici di uno strappo liberalizzante. Tanti di voi storsero il naso, ma – vi ringrazio della fiducia – risposero che se uno sfegatatato come me preferiva la prudenza vuol dire che qualche motivo c’era. Infatti c’è e continua ad esserci. Ma adesso sono preoccupato del fatto che il governo potrebbe dare un eccessivo peso alla mobilitazione di sinistra e privilegiare oltre misura il lato della prudenza. Sarebbe comprensibile. L’assediato Berlusconi sente gli squilli delle trombe di guerra dei sinistri mentre le nostre campane non suonano ancora. Cioè non vede una mobilitazione popoloproduttivista di peso pari o superiore a quella dei golpisti. E sarebbe ovvio, lo farei anch’io al suo posto, se si ponesse, prima, il problema di come disinnescare la mina e solo poi di soddisfare la nostra domanda di liberalizzazione. Attenti, amici, noi siamo una componente rilevante della Casa della libertà, ma non tutto il suo elettorato. Gli altri abitanti di questo condominio sono meno accesi di noi sulla priorità liberista o per ideologia o per mestiere diverso da quello di vivere solo di mercato come tocca a noi. Quindi metterebbero in priorità la sopravvivenza politica del governo e i mezzi compromissori che non ci piacciono se troppo sbilanciati sul lato dello statalismo. E non è il solo problema. Ce ne è un altro tecnico. La cultura politica italiana non riesce ancora a masticare una verità tecnica piuttosto banale: se taglio la spesa pubblica allo scopo di ridurre le tasse ottengo un effetto volano di miglioramento dei conti pubblici e dell’economia. Quindi in fase di economia calante non solo posso tagliare le tasse, ma devo farlo con ancora più intensità per ottenere più crescita e quindi più gettito fiscale. Mentre l’opinione prevalente che circola è che l’economia bassa vieta il rischio della detassazione entro i vincoli di stabilità. Certamente c’è una tensione di breve periodo tra parametri e detassazione in ciclo incerto, ma viene del tutto superata dall’alta probabilità di successo di medio periodo (biennio o triennio). Data questa verità tecnica poi si può trovar politicamente un buon equilibrio tra vincoli europei e liberalizzazione nazionale. Anche perché francesi e tedeschi hanno lo stesso problema. Ma se l’opinione pubblica non lo capisce, allora il dissenso sarebbe troppo difficile da gestire. Li avete già sentiti: “vedrete che Tremonti dovrà dimettersi” (Rutelli). Che vuol dire: uso l’inevitabile tensione sui conti di breve (mesi) per profetizzare una catastrofe futura. Questa è disonestà intellettuale e tatticismo. Ma l’ignoranza abissale dei mediatori dell’opinione pubblica non è in grado di svelare la verità: la tensione di breve precorre un effetto volano migliorativo di medio. E così troppa gente pensa che Tremonti sia un mitomane mentre è nel giusto.
Vorrei proporvi, amici liberisti, due azioni. La prima è di pubblicizzare al massimo la verità tecnica appena enfatizzata per facilitarne la realizzazione. Battaglia culturale. La seconda, battaglia politica, è più delicata. Secondo me è arrivato il momento di far sentire a Berlusconi che ci siamo. Non per condizionarlo in quanto è liberista quanto noi. Ma per fargli sentire che c’è un popolo della libertà che saprebbe e vorrebbe difendere il governo, e con questo il proprio interesse liberalizzante, in caso di bisogno. Per mantenere bilanciato non a nostro svantaggio il compromesso di pace sociale. Siamo gente che disdegna la piazza ed i riti collettivistici, per questo ritengo “delicato” il punto, ma siamo tanti, ciascuno con grandi capacità auto-organizzative, e sono certo che sapremo inventarci come far sentire la nostra voce a modo nostro. Squilli di tromba a sinistra, risponderemo con le nostre campane.