E’ un vero piacere poter commentare la crescente intesa bilaterale tra Italia e Regno Unito. Non solo per l’ovvia soddisfazione dei tanti accordi di reciproco interesse nazionale confermati e siglati durante l’incontro tra Blair e Berlusconi, ma per la nuova prospettiva che si apre a livello europeo. Londra sta esplorando seriamente le possibilità di entrare nell’euro. Ritengo sia interesse nazionale italiano fare tutto il possibile affinché tale buon esito si avveri e vorrei qui approfondirne i motivi, pratici e non romantici.
Il primo è che la credibilità dell’euro verrebbe molto rafforzata dalla partecipazione inglese. Non solo per la scala del conferimento, ma per l’effetto di qualificazione che ne deriverebbe. Quella britannica è l’unica grande economia europea già pienamente liberalizzata e dove una sinistra riformata (da Blair) in direzione centrista e pragmatica non ha alcuna intenzione di tornare indietro. Questo blu intenso in una mappa piena di punti rossi – i più grossi le stataliste Germania e Francia con sinistre irriformate e con destre a vocazione liberalizzante o blanda o minoritaria – e dove quelli azzurri (Italia e Spagna) hanno ancora bisogna di tempo prima di ottenere il colore pieno, sarebbe certamente un segnale al mondo che l’Europa sta guarendo dal morbillo che ne deprime da tempo la crescita. Perché l’inserimento nel tavolo intergovernativo specifico dell’eurozona di una grande nazione piuttosto determinata e costante, indipendentemente dalle alternanze di maggioranza, nel difendere il realismo che crea ricchezza impedirebbe, o almeno ridurrebbe, gli eccessi nazionali o europeizzati che la distruggono. E ciò migliorerebbe certamente le prospettive di solidità complessiva del sottostante economico che regge la credibilità della moneta.
Il secondo riguarda ancora l’euro, ma su un piano di rilievo più geopolitico. Uno dei suoi tanti problemi è quello di essere stato caricato di un valore emotivo anomalo: alternativa al dollaro, che deve competere con il biglietto verde, nell’ambito di una profezia che lo sostituirà come prima moneta planetaria. Tale stranezza non è imputabile ai tecnici della Bce, ma ai molti governanti, per lo più di sinistra o socialnazionalisti, che non sono riusciti a nascondere questo sentimento sostanzialmente antiamericano. Il mercato è rimasto certamente perplesso da questo eccesso di ideologia – per altro un po’ ridicolo per irrealismo – e ciò ha provocato distorsioni non favorevoli alla stabilità della nostra moneta. Penso che l’eurizzazione del Regno Unito, notoriamente e vocazionalmente ponte geopolitico tra i due continenti, ridurrebbe di fatto, e per politica, l’irrazionalità detta. E favorirebbe, sul piano dell’influenza gestionale, una benefica convergenza tra dollaro ed euro. Io sogno che in qualche decennio si formi un mercato unico euroamericano, “sogno” perché una così grande area monetaria e di economia forte sarebbe il pilastro di sostegno per tutto il mercato globale in formazione. Ovviamente è un po’ troppo onirico dirlo ora, ma sento che invocare questa tendenza sia molto più razionale dell’incubo di un’Europa antiamericana per partito preso, soprattutto che pretende il primato mondiale senza poterlo gestire da sola. La cooptazione monetaria di Londra sarebbe un vaccino contro questa sindrome, forse troppo irrispettoso definirla “mal francese”, comunque stranezza poco lungimirante.
Altri, specialisti in materie diverse, sapranno vedere ulteriori vantaggi dell’eventuale allargamento ad Ovest dell’eurozona. Per me quelli detti sono più che sufficienti per riflettere su cosa potremmo fare noi per aumentare la probabilità del buon esito. Sarebbe imprudente trattare in poco spazio quanto l’entrata di Londra possa piacere a Parigi o a Berlino. Forse inutile: se la popolazione inglese dirà sì al referendum di adesione previsto nel 2003 (invidiabile atto democratico che a noi fu negato) nessuno potrà ostacolarla. Ed il punto critico sta lì. Suggerirei un atteggiamento pragmatico, cioè quello di chiedersi cosa la maggioranza degli inglesi percepisce sia necessario per sentirsi comoda nell’eurozona. Il mondo dell’economia è già “in” perché la persistenza della sterlina, a questo punto, potrebbe dare svantaggi competitivi. Resta il sentimento popolare. Che vuole, in sostanza, il mantenimento della sovranità nazionale. Cioè un’Europa che possa essere più di un’alleanza (mercato e moneta unici, difesa sempre più integrata), ma meno di un superstato che pieghi eccessivamente le sovranità ed i modelli storici locali. Secondo me l’impegnare l’Italia per questa garanzia non sarà solo utile a rassicurare la popolazione britannica, scozzese, gallese e nordirlandese, ma è esattamente il modello giusto per noi e per tutti gli altri. Troverei sciocco imbastire una polemica tra i modelli di Europa sovranzionale (unione federale) e quello delle nazioni sovrane (alleanza intergovernativa). Il primo non esiste, il secondo è quello che c’è nella realtà, ma sta evolvendo verso una maggiore integrazione nonostante il “sovranismo”. Quindi è inutile tentare strappi. E se c’è da rimarcare la garanzia del mantenimento delle sovranità per ottenere il consenso della popolazione inglese, facciamolo. Senza esitazioni.