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Carlo A. Pelanda
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Carlo Pelanda: 2001-12-16il Giornale

2001-12-16

16/12/2001

Il nuovo diritto alla salute

L’avvio della riforma del sistema sanitario ha anche il pregio di sbloccare i vecchi concetti del diritto alla salute permettendone la ricerca concreta di più efficaci. Nella seguente direzione: evitare gli sprechi per dare di più a chi ha veramente bisogno. Finora le attenzioni si sono concentrate sul primo termine. A ragione: senza sostenibilità economica dei servizi medici e di assistenza si mette a rischio il diritto alla salute di tutti. Ma è un buon momento per segnalare la parallela priorità di miglioramenti sul lato del secondo. Due casi, tra i tanti, sono emblematici: (a) la persona inabilitata per vecchiaia o svantaggio pesa troppo sulla famiglia, rendendo la vita di ambedue un inferno; (b) collegato, i grandi invalidi godono di sostegni, ma non al punto di poter vivere e lavorare normalmente. Lo sfondo su cui far risaltare le innovazioni necessarie è quello del disastroso sistema sanitario ed assistenziale forgiato per decenni dalle dottrine di sinistra. L’ossessione standardizzante, tipica del burocraticismo egualitario, ha impedito, in generale, l’individualizzazione dei trattamenti (dal rispetto delle urgenze mediche reali al diritto alla privacy negli ospedali) perché ne privilegiava l’estensione totalizzante. In particolare, non ha fornito a chi aveva veramente bisogno la copertura corrispondente. Come se l’interesse principale fosse stato quello di imporre un’ideologia piuttosto che di erogare un servizio concreto. Per questo dovremmo iniziare la ricostruzione di un reale diritto alla salute dalle categorie che meno lo hanno ricevuto. 

I dati fanno ipotizzare che siano milioni (un censimento specifico sarebbe urgente) le persone la cui qualità della vita è seriamente pregiudicata da un’assistenza insufficiente. Precisamente, persone che il sistema pubblico fa sopravvivere, ma non vivere. Per esempio, un anziano in casa di riposo è certamente curato, ma non viene aiutato ad avere mobilità e interessi. Di fatto il sistema lo scarica alle famiglie. Ma senza controllare se queste abbiano le risorse per gestirlo bene o dare loro incentivi e servizi per poterlo fare. Per questa area dobbiamo sviluppare una garanzia molto più forte e completa: finanziare il diritto alla qualità della vita dei cittadini impediti, da età o malattia, oltre la mera sopravvivenza. La forma del nuovo standard potrebbe essere quella di un pacchetto individualizzabile fatto di un mix tra sostegni in denaro e accessi a servizi speciali, calibrato in base alle disponibilità e situazioni reali di ciascuno. La stessa soluzione dovrebbe facilitare la vita alle famiglie che hanno un componente inabile. Queste dovrebbero poter lavorare e andare al cinema come fanno i più fortunati e quindi trovare un aiuto integrativo che non li lasci soli con il problema. Quanto costerà? Non poco, ma se specializziamo i servizi (non necessariamente forniti solo da strutture pubbliche) i denari ci sarebbero a patto di eliminare gli sprechi, tra cui l’eccesso di copertura per chi non ha bisogno oppure ha un reddito tale da non richiedere integrazioni solidaristiche.  In sintesi, il diritto alla salute deve evolvere lungo la via dell’individualizzazione dell’assistenza combinata con l’obiettivo di rendere possibile far vivere e non solo sopravvivere sia persone inabilitate sia i loro famigliari. Senza esitazioni. Se le avete, andate a visitare un anziano messo a vegetare, pur tenuto in vita e curato, oppure una famiglia a cui il servizio sanitario ha scaricato il parente con problemi mentali. Vedrete che i dubbi spariranno.

La seconda categoria riguarda centinaia di migliaia di invalidi, anche questa da censire con più precisione. L’attuale sistema medico e di assistenza offre loro tutele e servizi. Ma non è previsto che si tenti il possibile per riportarli alla normalità o a una situazione che la emuli, cioè alla ricostruzione delle loro facoltà perdute. Penso che ciò non sia dovuto a cattiva volontà, come  nel primo caso, ma principalmente ad un ritardo nel capire, e ad accogliere nel sistema dei diritti, i potenziali delle nuove tecnologie. Per esempio, fino a pochi anni fa neanche si pensava alla possibilità di poter impiantare un occhio elettronico nel cervello e con questo ridare la vista a chi la ha perduta. Oggi è pensabile, anche se la tecnica è lontana dalla maturazione. Mi chiedo, cosa potrebbe accelerarne lo sviluppo? Evidentemente una domanda crescente di tali tecnopportunità generata da un diritto più raffinato e mirato: ci impegniamo come comunità a ripristinare il più e meglio possibile le facoltà delle persone che per sorte o nascita le hanno perdute. Non è detto che sarà possibile in forma completa o per tutti i casi. Ma certamente lo specializzare risorse per tale scopo migliorerebbe, molto più di adesso, la vita di chi soffre per gravi impedimenti. Per esempio, è novità recente l’invenzione dello scooter elettrico biruote Segway (Ginger). In esso c’è una tecnologia notevole: giroscopi computerizzati che autoequilibrano la piattaforma, guidabile con gesti del corpo e della testa attraverso sensori collegati ai micromotori che muovono le ruote. Uno che ha la spina dorsale spezzata, in attesa delle terapie geniche che alcuni ipotizzano potranno nel futuro riattaccarla, potrebbe usare tale tecnologia adattata ad un “esoscheletro” di sostegno. Potrebbe passeggiare, forse lavorare. Oggi il sistema gli o le paga una pensione, la sedia a rotelle, le cure ed un accompagnatore. Ma fa poco o nulla per esplorare tale sviluppo ed eventualmente – se realistico – stimolarlo. Perché non c’è un diritto migliorativo così forte ed individualizzato. Costruiamolo, entro l’evoluzione già avviata di una socialità dello Stato che si indirizzi di più dove serve e meno dove è inutile.

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