La formazione del mercato globale implica necessariamente la costruzione di un’architettura politica altrettanto vasta. Non c’è e tale vuoto ordinativo viene pagato in termini di maggiori rischi di instabilità dovuti a gap di sicurezza, disordine monetario ed eccessivi squilibri economici. Da qualche anno sia la comunità di ricerca sia quella politica cercano formule progettuali per risolvere il problema, ma anche le più concrete di queste rimangono carta perché richiedono un grado di cooperazione tra Stati che non è percepito come realistico e fattibile da parte dei governi. Ai primi di settembre mi trovai in un seminario internazionale dove gli intervenuti riconoscevano con preoccupazione questa impasse. Un collega tedesco fu profetico: “ senza uno shock qui non si muove nulla”. L’11 settembre arrivò e in poco più di un mese si è formato il precursore di un nuovo ordine mondiale. Valutiamone le prospettive.
L’amministrazione Bush ha realizzato che l’America deve trasformarsi da leader di un’alleanza solo occidentale, che esclude troppi altri, in centro di un accordo globale che includa il maggior numero possibile di Paesi. Si è accorta, cioè, che la sua coperta ordinativa (militare e politica) era più corta del letto e che per eliminare le fonti di disordine bisognava allungarla. Tale concetto non ha (ancora) modificato il criterio tradizionale della politica estera statunitense: evitare qualsiasi vincolo multilaterale e instaurare con tutti i Paesi rilevanti una relazione bilaterale specifica. Ma ha ampliato sostanzialmente il grado di apertura all’interesse nazionale dell’ “altro”. Ciò sta favorendo come non mai sia i compromessi pragmatici sia vere e proprie nuove alleanze. Con diverse gradazioni cooperative, il tutto entro una geometria variabile di partenariati. Quello con la Russia appare come alleanza fortissima ad alta probabilità di diventare strutturale per lo meno nella gestione comune della sicurezza (e risorse petrolifere) dell’Asia centrale. Con la Cina la nuova relazione cooperativa è più selettiva, ma inusualmente solida perché, appunto, conquistata attraverso la disponibilità americana a concedere di più agli interessi di Pechino. Il punto, ora, è capire se questa architettura in evoluzione è solo “tattica” e ad hoc, quindi reversibile, oppure potrà trasformarsi in cooperazione globale duratura.
Per rispondere è utile schematizzare la strategia americana in atto. Da una parte, deve evitare di “nemicizzare” l’Islam perché sarebbe ingestibile un conflitto contro quasi un quinto della popolazione mondiale. Dall’altra, in questa area geopolitica si trovano le maggiori fonti di instabilità ed è ovvio che per dare sicurezza al mercato globale bisognerà riordinarla completamente. Ed è vasta. L’azione è disegnata come insieme di cerchi concentrici. Il primo, di cornice, raccoglie le potenze che, pur non intervenendo direttamente (Cina, Russia, India, ecc.), aumenteranno con la loro cooperazione la qualità strategica della coalizione antiterrorismo. Tale livello è il più importante perché, aggiunto a quelli esistenti, garantisce, per effetto scala o “diga”, il contenimento di qualsiasi evento destabilizzante eventualmente prodotto dall’iniziativa di bonifica o da altri atti terroristici, anche più pesanti di quelli visti. Il secondo comprende i Paesi che metteranno a disposizione risorse militari dirette (inglesi, turchi, ecc.). Il terzo quelli che aiuteranno indirettamente o solo economicamente (per esempio, Giappone), ma disposti ad interventi militari se la situazione lo richiede (Francia, Germania, Italia, ecc.). Il quarto include i Paesi islamici dell’area bersaglio, amici o “amicizzabili” (per esempio, Pakistan), che devono essere sostenuti affinché possano mantenere l’ordine interno e/o appoggiare azioni belliche nell’area. Il quinto riguarderà subcoalizioni dedicate alla gestione di casi specifici, per esempio l’accordo regionale per decidere chi governerà l’Afghanistan dopo i talebani, quello per congelare il conflitto tra palestinesi ed Israele, forse la gestione della difficile successione nel trono saudita, ecc. In questa geometria variabile il fattore comune per tutti è un accordo di condivisione dell’intelligence e delle operazioni (non militari) di polizia antiterrorismo. Al centro di tutti i cerchi c’è la leadership degli Usa che coordina differenzialmente le diverse missioni. Questo, più o meno, è il sistema in costruzione. Reggerà? Probabilmente sì fino a che l’America resterà pressata dal compito di bonifica e quindi disposta a cedere molto sul piano politico per mantenere ogni Paese nella coalizione. Ma quando l’emergenza sarà messa sotto controllo bisognerà trovare un collante più normale, probabilmente in forma di nuovi standard economici e di sicurezza (antiproliferativa) retti da accordi formali multilaterali. Ciò sarà molto complicato perché riemergeranno i fattori di impasse detti sopra. Ma la novità è che l’esperienza cooperativa in fase d’emergenza potrebbe far vedere meglio, e a tutti, i vantaggi concreti di un’architettura cooperativa permanente. Questa è solo una mezza risposta alla domanda. Il resto dipende dalla volontà e capacità dei governi di costruire un “fattore ponte” che potrà trasformare l’architettura provvisoria in un nucleo stabile di ordine globale. Qui l’Unione Europea, in quanto potenza meno sospettabile dell’America di atteggiamenti imperiali, ma partner stretto degli Usa stessi, potrebbe giocare il ruolo di protagonista diplomatico, se uscisse dalla sua passività. Ciò coinvolge direttamente noi italiani, rilevanti nel favorire la giusta direzione se decidiamo di volerla.