Nelle prossime due settimane il tormentone economico principale riguarderà la tensione tra requisiti di equilibrio dei bilanci statali ed una situazione che spinge a non rispettarli. Germania ed Italia, che insieme fanno il 50% circa del Pil dell’eurozona, potrebbero avere serie difficoltà nel raggiungere gli obiettivi di pareggio dei conti pubblici fissati per il 2001. Anche la Francia è nei guai, ma il governo (Fabius) ha dichiarato che li rispetterà.Vediamo se i primi due riusciranno a farlo.
La Germania è quella messa peggio. Dipende per circa il 13% della sua economia dalle esportazioni. La riduzione dell’import americano ha messo in crisi questa componente, le altre (consumi ed investimenti interni) endemicamente piatte a causa di un modello statalista che le soffoca o carica di costi non-competitivi. In generale, l’economia tedesca, anche appesantita dall’area orientale ex-DDR che dall’unificazione del 1989 non si è ancora integrata a quella occidentale, è in tendenza recessiva. L’ultimo miglior scenario – non ufficiale - la prevede crescere sotto il 2%, probabile una stagnazione. Poiché la sua spesa pubblica (numeratore) era stata programmata in base ad una previsione di crescita del Pil (denominatore) attorno al 3%, evidentemente è di fronte d una prospettiva di notevole sbilanciamento: o taglia la spesa o sfonda l’obiettivo di pareggio. Alcuni economisti tedeschi, tra cui uno che fa parte dei “cinque saggi”, un gruppo di istituti di ricerca le cui valutazioni che hanno molto influenza, ha raccomandato nei giorni scorsi di non sforbiciare le uscite per non deprimere ancor di più la domanda interna di beni. E ha sostenuto che una piccola violazione del “patto di stabilità sarebbe un male minore. Il governo “rossoverde” Schroeder è già in campagna elettorale per le elezioni che si terranno nell’autunno del 2002. Ovviamente non ha alcuna voglia di attuare tagli impopolari e, anzi, ha bisogno di prendere qualche misura demagogica (tipo quelle fatte dall’Ulivo nella legge finanziaria 2000 in Italia) per finanziare il consenso, in particolare a favore dei ceti assistiti. E già da un paio di mesi sta sondando informalmente i partner europei per vedere se si può flessibilizzare un po’ il vincolo di pareggio.
La stessa tentazione potrebbe averla il nuovo governo italiano. Il nostro Paese ha un problema minore sul piano della crescita (denominatore), ma uno maggiore in termini di spese andate fuori controllo (numeratore). In Italia si è fatto lo stesso errore previsionale (in realtà voluto), all’inizio dell’anno, di puntare ad una crescita attorno al 3% del Pil proprio per giustificare la non necessità di tagli alla spesa. Il Prof. Baldassarri, viceministro dell’economia, ha dichiarato che al momento è prevedibile un 2,4%. Non malissimo, forse alzabile proprio grazie agli stimoli che Tremonti ha appena sottoposto all’approvazione del parlamento. Da una parte, a causa del ciclo globale basso (si riprenderà nel 2002) è difficile che le cifre possano cambiare di molto in così poco tempo. Dall’altra, il tipo di stimolazione adottato con la “Tremonti 2”, la defiscalizzazione degli utili reinvestiti, non solo per le industrie, ma anche per gli artigiani e professionisti, ha in teoria la possibilità di produrre un boom di investimenti entro il 2001 e, quindi, di avvicinare il 3% di crescita negli ultimi mesi dell’anno. Anche per questo il ministro dell’economia ha annunciato che il provvedimento sarà retroattivo, cioè da giugno, compreso. Potrà succedere? Dipende dall’ottimismo degli operatori economici. I primi segnali sono buoni, ma è troppo presto per scenarizzarli. Poi, oltre al buco nei conti correnti annuali ancora da chiarire, L’Italia deve fare i conti con la voragine del debito pubblico cumulato - cosa diversa dal deficit annuo, ma che viene aumentato da questo – che nel 2000 ha aggiunto l’incredibile cifra di 70mila miliardi a quella scioccante di due milioni cinquecentomila e cinque miliardi già esistenti. Per inciso, proprio non si vede quale risanamento abbia fatto l’Ulivo. In sostanza, la finanza pubblica italiana lavora ai margini della sostenibilità.
Con quale criterio valutare questi dati? Il punto critico riguarda il mantenimento del Patto di stabilità inteso come continuazione senza interruzione della tendenza al pareggio dei bilanci pubblici degli Stati partecipanti all’euro. Io sono il primo a dire, e lo scrissi in tutte le salse ai tempi, che tale vincolo era la cosa più stupida e pericolosa che si poteva fare in quanto toglieva flessibilità economica alle nazioni. Con la complicazione che le riforme liberalizzanti hanno bisogno di un periodo di finanziamento straordinario, anche ricorrendo al deficit, dei cambiamenti affinché non producano danni alla popolazione e dissenso. D’altra parte non si è trovato altro modo per dare solidità basica alla moneta unica e così si è fatto. E ormai non si può tornare indietro. E nemmeno pensare di violare il Patto: sarebbe la crisi finale dell’euro, per cedimento della sua ultima spiaggia di credibilità già ridotta al lumicino. L’Italia, probabilmente, riuscirà a resistere alle tentazioni perché i fattori positivi detti sopra è probabile prevalgano su quelli negativi. Inoltre molta spesa pubblica è carica di inefficienza e può essere tagliata senza far male ad alcuno. Lo vedremo nel documento programmatico (Dpef) che sarà presentato attorno al 16 luglio. Ma la Germania è molto più rigida e potrebbe cedere. Speriamo che tagli le spese interne piuttosto che la stabilità dell’euro.