Il punto critico dello scenario globale è che tutta l’economia planetaria dipende troppo da quella interna statunitense. In questi giorni sempre più lettori, preoccupati dal susseguirsi di notizie che indicano un peggioramento grave del ciclo economico europeo – che limita gli effetti stimolativi appena decisi dal governo per pompare la crescita in Italia - chiedono quando la situazione migliorerà. La prima parte delle risposta è semplice: nel momento in cui l’economia americana si rimetterà a tirare dopo circa sei mesi l’effetto si farà sentire anche in Europa e nel resto del mondo. La seconda è più difficile: “quando” la locomotiva Usa ripartirà e, soprattutto, con quale forza trainante per gli europei? Anche perché dai dati risulta chiaramente che questo sistema a “locomotiva unica” difficilmente potrà reggere. Cominciamo da qui.
Dal 1999 l’eurozona – il Giappone dal 1992 – ha fatto una politica scellerata: svalutare di fatto la moneta invece di fare le riforme di efficienza economica interna. Ciò è servito a compensare con più esportazioni la mancanza di crescita propria dovuta al fatto che lo statalismo - peggiorato dalla coincidenza di governi di sinistra irriformata in Francia, Germania ed Italia, fino a poco fa – deprime strutturalmente i consumi e gli investimenti. Inoltre mantiene forme di protezionismo sociale e corporativo che riducono la libera concorrenza e quindi tengono tendenzialmente alta l’inflazione. Cosa che riduce la spazio per la crescita non-inflazionistica e rende l’economia meno sensibile alle stimolazioni via riduzione dei tassi monetari. In sintesi, l’eurozona incapace di riformarsi ha reso dipendente la propria crescita dalla capacità dell’America di assorbire le sue esportazioni. L’economia europea sarebbe teoricamente poco sensibile al ciclo esterno avendo la maggioranza degli scambi in quello interno. Ma, in pratica, la quota pur piccola di dipendenza dall’esterno (per la Germania circa il 13% dell’economia complessiva) è quella che decide crescita o recessione, il resto endemicamente stagnante per i motivi di modello politico congelante detto sopra. Il Giappone consociativo ed irriformato è speculare. Così quelle che sulla carta potrebbero essere due locomotive mondiali sono rimasti vagoni senza forza motrice propria. Per questo tutto il mondo è andato a comprare e ad usare l’efficienza americana e la sua moneta. Ma tale effetto di convergenza ha surriscaldato e squilibrato la crescita statunitense rendendola insostenibile. Cosa che ha reso necessario raffreddarla brutalmente attraverso un rialzo killer dei tassi monetari nella prima parte del 2000. E siamo ad oggi, con un’America in tendenza semirecessiva: la crescita tendenziale del Pil del primo trimestre è stata dell’1,3%, nel secondo di circa lo 0,7, il terzo non sta andando bene.
L’eurozona, in particolare la Germania che ne è il motore economico principale per scala oggettiva, segue. Il Pil del 2001 tende ad andare parecchio sotto il 2% con rischio crescente di recessione e senza forza anticiclica propria. Quindi tutti aspettano che riparta l’America. Lo farà: le manovre stimolative in corso sono molto determinate (tagli aggressivi dei tassi, riduzione retroattiva delle tasse e aumento d’emergenza della spesa pubblica sia federale sia locale), l’inflazione sta rientrando, la produttività resta elevata, così i consumi pur leggermente cedenti. Ma lo farà in modo lento, perché il sistema è ancora squilibrato, probabilmente a partire dalla fine dell’anno. Quindi il rimbalzo non sarà necessariamente di entità tale da trainare gli europei come avvenuto negli anni precedenti. Anche perché la ripresa americana dovrà essere aiutata da una riduzione del valore di cambio del dollaro che, se resta in bolla, renderà endemica la crisi di competitività del settore manifatturiero (infatti in recessione settoriale dalla fine del 1999 e da cui proviene il più della disoccupazione crescente). Quindi il punto non è tanto il riavvio della locomotiva quanto il suo effetto traino per gli europei, nel 2002. Questi potrebbero trovarsi con meno competitività valutaria e senza riforme di efficienza interna. Da una parte, la riduzione dell’inflazione importata aiuterà un pochino la crescita dell’eurozona. Dall’altra, difficilmente vi sarà un incremento medio del Pil al 3% come ora profetizzato. Se la ripresa americana diventasse più forte del previsto e il dollaro, per motivi di flussi di capitale, tornasse troppo alto, la crisi del settore manifatturiero americano ed il deficit commerciale peggiorerebbero ed innescherebbero una successiva recessione, questa volta grave, che massacrerebbe anche noi, perfino di più. Lo scenario, ovviamente, ha molte più dimensioni, ma quelle dette indicano l’essenza del problema: (a) l’eurozona deve diventare capace di fare crescita interna attraverso riforme di efficienza; (b) anche per aiutare quella americana nello sforzo di traino del convoglio globale. Fino a che questo non avverrà noi avremo troppo poca crescita e gli americani troppi squilibri, progressivamente sempre più destabilizzanti. Appunto, non regge.
Il che ci porta al cuore del problema politico europeo. Noi italiani stiamo cominciando a liberalizzare, ma la Francia socialista mantiene leggi depressive tipo quella delle 35 ore (che non riesce a finanziare) e la Germania socialdemocratica resta economicamente rigidissima, impastata nel consociativismo. Se anche questi due, che fanno più del 50% del Pil dell’intera eurozona, non si danno una mossa sarà impossibile diventare locomotiva per noi e per gli altri. La brutta notizia è che dovremo aspettare le elezioni del 2002 (Francia in primavera, Germania in autunno) per sperare, eventualmente, in un mutamento politico risolutivo. Per cui l’anno prossimo sarà ancora economicamente incerto nonostante la ripresa americana. La buona è che se Francia e Germania cambiassero maggioranza, con noi italiani in fase di decollo grazie alle misure stimolative appena avviate, un’Europa in via di disgelo economico volerebbe alle stelle, l’euro verso la salvifica parità con il dollaro.