Tanti ricercatori, studenti in via di specializzazione e imprenditori impegnati nelle alte tecnologie, si aspettano che il nuovo governo crei il prima possibile le condizioni per il lancio di università totalmente private. Serpeggia un po’ di inquietudine perché tale iniziativa non appare prioritaria. Per renderla tale troverei eccessivo, per il momento, presentarla in forma di manifesto sottoscritto da migliaia di firme liberiste, come molti amici chiedono e stanno predisponendo, sollecitandomi proprio perché nel passato l’ho invocata più volte su queste pagine. Ritengo il nuovo governo sufficientemente carico di ispirazione liberale e quindi favorevole all’impresa privata, consapevole dei benefici modernizzanti della libera concorrenza. Sarebbe incomprensibile un “no” o un ritardo quando avrà il tempo di occuparsene. Anche perché si chiedono solo due cose senza costi diretti per lo Stato: (a) abolire, o comunque modificare, il valore legale dei titoli di studio che comporta la statalizzazione della docenza; (b) detassare i primi dieci anni di attività delle nuove università-azienda per favorirne la capitalizzazione iniziale. Altro non serve perché l’idea, appunto, è di permettere la costruzione di università in forma di società per azioni che rispondano, sostanzialmente, alle regole normali dell’impresa privata. Vediamo la situazione di fondo ed i benefici attesi da questa proposta.
Il sistema universitario italiano può dirsi totalmente statalizzato. Un docente ai vertici della carriera prende meno di cinque milioni netti al mese, le posizioni intermedie sono da fame. Un giovane ricercatore può attendere anche 20 anni prima di andare in cattedra, spesso escluso per motivi opachi e non di merito, dovuti alla burocratizzazione corporativa delle carriere accademiche. I dipartimenti, endemicamente sottocapitalizzati per la ricerca, hanno vincoli nello scegliere il personale che desiderano. Le industrie trovano difficoltà enormi nell’interfacciare le loro funzioni di ricerca con il sistema universitario. Questo, per altro, offre titoli di studio esotici, che non esistono nelle parti più evolute del mondo: laureetta, laurea ed un dottorato di ricerca vincolato da concorso e salariato, quindi ristretto nei numeri, ambiguo nel merito. Esito: i cervelli fuggono all’estero, per lo più in America, non solo per prendere salari quattro volte superiori – e negoziabili in base al valore individuale - ma, soprattutto, per lavorare in organizzazioni efficienti e meritocratiche perché in competizione sul piano dell’eccellenza. Nonostante questi incredibili difetti, l’università statale italiana è densa di grandi qualità individuali. E merita una seria riforma che non dubito il nuovo governo varerà, correggendo circa trenta anni di tentativi mai o mal riusciti. Auguri. Ma è innegabile che la concorrenza con un nuovo sistema universitario privato accelererebbe di molto la modernizzazione di quello statale. E, soprattutto, risolverebbe in tempi più brevi alcune emergenze che non possono restare a lungo irrisolte.
Il lettore potrebbe essere sorpreso perché sa di università private (“libere”) già esistenti. In realtà sono poche e “private” per modo di dire. Comunque la docenza dirigente resta di carriera “statale”, una sorta di imbuto che strozza la gestione efficiente. Motivato dal valore legale dei titoli e regole preistoriche simili, appunto da abolire. Soprattutto, mancano politecnici privati.
Quali problemi risolverebbero se fossero creati e quali nuove opportunità creerebbero? L’Università-azienda sarebbe libera di formare team di docenti e ricercatori competitivi, attratti da salari negoziabili e royalty sui brevetti. Già questo permetterebbe di richiamare in patria molti eccellenti. Potrebbe ospitare entro il campus i laboratori di ricerca delle aziende. O fornirli. L’Italia è piena di piccole aziende che non hanno scala per finanziare ricerca in proprio. Se potessero usare le infrastrutture di un politecnico “partner” ci riuscirebbero. E ciò aumenterebbe di centinaia di volte la loro competitività. Gli studenti godrebbero di questo per la loro esperienza applicativa, nonché della maggiore flessibilità gestionale per la preparazione scientifica generale. Costerebbe loro molto? Certo, non meno di venti milioni all’anno solo per il servizio didattico e servizi collegati. Ma l’Università-impresa, in accordo con una banca o con una propria finanziaria, potrebbe prestarglieli per averli indietro a basso interesse in due o tre decenni. Tipo un mutuo combinato con un fondo di investimento privato, ed un’assicurazione, attivati dallo studente stesso. Non difficile, anche in caso di bisognosi, ma di talento. Quante nuove università di questo tipo potremmo aspettarci nel giro di cinque-sette anni? Stimo tra le quattro e le otto, per lo più politecnici, inizialmente fornitori di “master” e “dottorati” – con valore dato dal prestigio dell’istituzione che li rilascia - e solo dopo del primo livello di titolo. Se, appunto, vi fosse lo stimolo della defiscalizzazione totale per un decennio allo scopo di attrarre il capitale di rischio. Il personale? Ci sarebbero persino un eccesso di ottimi ricercatori e docenti stufi del sistema statale e molte risorse straniere da (re)importare se ci fosse un buon attrattore. In sintesi, basta aprire lo spazio affinché l’iniziativa possa essere un business e poi ci penserà il mercato a realizzarlo. Che, poiché in atto una rivoluzione tecnologica, è già predisposto a valorizzare gli investimenti in conoscenza, se organizzata in luoghi efficienti. Non c’è spazio per srotolare tutto il progetto, ma basti qui fissare l’idea che sarebbe veramente sciocco non stimolare questa opportunità. Non si chiede nulla allo Stato, solo che lasci libertà di creare.