Concedetemi una notazione laterale prima di affrontare il contenuto principale dell’articolo. Anni fa un mio studente del corso di scenari globali all’Università della Georgia, poi diventato uno degli strateghi del movimento antiglobalizzazione, mi inviò la seguente e-mail, trionfale: con cinquanta dollari di costi Internet abbiamo affossato quaranta miliardi di dollari di investimenti. Faceva riferimento alla demonizzazione degli alimenti transgenici. Ironicamente ed amaramente – per l’uso della conoscenza a favore dell’oscurantismo - risposi che non era stato sportivo: col dottorato di ricerca non c’è stata partita contro dei poveri manager aziendali che avevano sfangato sì e no un master. Poi, crescendo, l’ecosabotatore divenne un bravo gestore di fondi finanziari. Ma tanti suoi colleghi restano in prima linea e insegnano le tecniche ai movimenti di tutto il mondo. Perché è un affare, sporco, ed è ora che qualcuno lo sveli.
Si inquadra un settore industriale simbolicamente vulnerabile, lo si demonizza e poi si aspetta che aziende e governi offrano delle risorse indirette (progetti di ricerca o etici) o dirette (denaro sottobanco) per attutire o deviare gli attacchi. Poiché le multinazionali hanno più soldi e nei vertici delle istituzioni mondiali c’è la televisione altrettanto mondiale, i movimenti antagonisti una volta settoriali e frammentati si sono aggregati per convergere nei summit e, soprattutto, hanno definito come nemico comune la “globalizzazione”. Non è stata un’evoluzione “politica”, ma di “business”. E’ interessante chiarirne il modello. I manager dell’antagonismo non hanno molte truppe, ma Internet e l’efficienza dei trasporti permettono di concentrarli a basso costo dove producono la massima utilità, cioè nei summit televisizzati. Così si penetra nelle menti del pubblico mondiale a costi quasi zero. Come? Usano la tecnica di “impadronirsi dell’invisibile” (gestione simbolica). Se comunico un’idea nel visibile, l’ascoltatore ne ha esperienza propria e non si lascia condizionare facilmente. Quindi evitano tutti i temi concreti ed evocano gli spettri: l’atomo, il transgenico, la globalizzazione non si toccano con mano e basta dire che sono cattivi. Con l’astuzia di usare “marchi veicolari” già socialmente radicati per dare carne ai fantasmi: l’invidia contro il ricco, il sospetto contro il potente, la frustrazione nei confronti di un sapere tecnico che non si capisce, ecc. E qui c’è la remunerazione. I governi e le aziende vedono che i contenuti antagonisti riescono a trasformarsi in stereotipi di massa e mollano concessioni, sbagliando. Questa nota serve a segnalare che il dibattito corrente sulla globalizzazione, in occasione del vertice di Genova, è totalmente distorto proprio per quanto detto. Tento di riportarlo in linea segnalando i punti critici che emergono dalla ricerca scientifica in materia.
C’è in effetti un crescente problema di squilibrio nel processo di mondializzazione dell’economia. Il mercato globale si sta formando più velocemente di un’architettura politica altrettanto globale che lo governi e stabilizzi. E c’è un vuoto politico. Come riempirlo? La teoria guida recita che si debba accelerare e forzare la cessione delle sovranità nazionali allo standard globalizzante – semplificando, il liberalismo economico - affinché l’espansione del mercato non venga ostacolata da nazioni poco efficienti. Questo concetto è sostenuto dal fatto, registrabile nei dati dell’ultimo decennio, che il libero fluire del capitale in un mondo con meno confini ha in effetti aumentato la ricchezza media delle popolazioni, sia nei paesi emergenti sia in quelli già ricchi. Da sempre ho condiviso questa teoria, ma analizzandone gli effetti concreti ritengo che attribuisca poteri eccessivi alla capacità modernizzatrice spontanea del mercato ed una rilevanza insufficiente alle condizioni politiche di fondo che la facilitano. Per esempio, molte nazioni emergenti hanno aperto i confini al capitale internazionalizzato senza riformare il sistema bancario interno: crisi asiatica del 1998. Altre, come noi, si sono aperte alla concorrenza globale senza riforme di efficienza interna con l’esito di andare in crisi competitiva. In sintesi, il problema non è la spinta globalizzante, che è sana, ma sta nelle difficoltà delle nazioni di adattarsi ai nuovi standard di circolazione del capitale mondiale. Per esempio, secondo la teoria standardizzante dovremmo costringere il Giappone (e la Germania) a terminare l’opaco intreccio tra banche ed imprese e a liberalizzare il mercato del lavoro. O se no la sua spaventosa inefficienza interna, messa a contatto con il ciclo mondiale del capitale, potrebbe produrre una catastrofe economica globale. Andrebbe fatto. Ma ciò implica il cambiare tutto il modello sociale nipponico. Senza pressioni esterne non lo faranno a causa della difficoltà. Con troppe pressioni si ribelleranno o falliranno. Mancano istituzioni politiche internazionali che mettano in grado ogni singola nazione di trovare un proprio modo (e tempi) per prendere un assetto interno che incorpori lo standard globalizzante senza impatti negativi per la popolazione. Quelle pensate a Bretton Woods (1944) sono gloriose, ma vecchie e non riescono a svolgere questo nuovo compito. Anche nella miniglobalizzazione europea, l’iniziale modello sovranazionale (Maastricht) è stato revisionato di fatto per lasciare un po’ più di sovranità alle nazioni affinchè trovino modi e tempi propri per aderire allo standard comune. Ma in modo confuso e due modelli opposti (confederale e intergovernativo) convivono. Questo è esattamente il problema di ricerca principale, oggi, in materia di architettura politica mondiale: conciliare le sovranità nazionali con lo standard globalizzante. Si è capito che la formula del bilanciamento tra i due è quella giusta, ma il come realizzarla, e sotto quale ombrello istituzionale, va ancora inventato. Sarebbe bello se i lettori si eccitassero nel discutere questo tema di buongoverno planetario e non per gli spettacoli antiglobalizzanti.