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Carlo A. Pelanda
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Carlo Pelanda: 2001-6-10il Giornale

2001-6-10

10/6/2001

Un patto fra forti

 Il giorno dell’insediamento del governo Prodi, nel 1996, scrissi su queste pagine che “…avrebbe tentato di risanare i conti dello Stato a scapito dell’economia reale”. E che per questo non potevamo fargli nemmeno gli auguri di rito. Previsione azzeccata, ma senza alcun merito. E’ difficile sbagliare le previsioni sulle conseguenze economiche di un governo di sinistra, se irriformata come quella italiana (francese e tedesca): tasse, crisi competitiva ed impoverimento. Canonico, così è stato, ma finalmente voltiamo pagina. Al governo Berlusconi è più facile fare gli auguri, viste le intenzioni programmatiche in linea con la realtà dei meccanismi che creano e diffondono la ricchezza. Ma c’è qualcosa in più: l’emozione ed un conseguente rafforzamento del patto tra leader ed elettori. 

 Dagli anni ‘50 in poi nessun esecutivo italiano, a parte la sciagurata svolta di centrosinistra nel 1963, ha mai tentato di attuare cambiamenti di scala simile a quelli promessi dal nuovo premier: futurizzazione e riforma competitiva. Soprattutto, Berlusconi crede sinceramente, penso, di poter portare l’Italia in serie A: certamente in Europa, probabilmente nel mondo. Ed è questa visione che unisce leader e popolo con una forza che mai abbiamo sperimentato negli ultimi decenni.

 Io sono nato nel 1951 e dopo l’età della ragione mai ho visto la politica nazionale proferire grandi visioni e progetti. Il giorno prima di morire, l’anziano ebreo che mi insegnò a giocare a scacchi con gli occhi bendati, nel caffè San Marco a Trieste, in un sussulto di tosse, oltre a non fumare, mi raccomandò: “ adesso aprili, Vienna non c’è più, Trieste è senza navi, l’Italia senza timone e rotta, le falle si allargano, segui la Bora; il vento, gli oceani”. Fuggii in America. Provai invidia  quando i miei studenti, cantando l’inno statunitense, mi dissero comprensivi che non potevo capire il loro “patriottismo costituzionale”. L’orgoglio di essere cittadini della nazione migliore per libertà,  civiltà ed istituzioni, la più forte nel mondo per potenza tecnica e scientifica. In realtà li capivo, ma non potevo far altro che tacere in attesa che la mia italianità – alla quale non ho mai rinunciato – sostenesse un qualcosa di cui menar vanto. Beniamino Andreatta, nel 1986, mi chiese di lavorare almeno per qualche mese all’anno in Italia: servivano giovani per studiare come modernizzare il Paese. Analizzandolo tecnicamente trovai un disastro politico ed istituzionale. Quel leader, nel 1993 quando fui suo consigliere al ministero degli esteri,  mi confidò, con apprensione, un timore: forse dovremo farci governare dall’esterno per salvarci. Contrapposi l’immagine di un popolo di qualità ineguagliabile nel pianeta, che giustificava ambizioni sovrane e d’avanguardia politica-intellettuale e che non meritava un destino di colonia minore. Mi guardò, annuì, ma tacque. Nel 1997, se ricordo bene, andai a trovare Francesco Cossiga per consigli su cosa fosse possibile e utile fare per dare una spinta al Paese. Fu lucidissimo, paterno, ma terribile e sconsolato: “a Pelà, tornatene in America”. Lo feci a part-time per motivi di lavoro, ma restai in Italia a tempo pieno con il cuore. Che ora batte forte perché un team di persone credibili dice che l’Italia potrà vincere la medaglia d’oro nelle olimpiadi della civiltà e della ricchezza.

 Questa attesa entusiasmante, presidente Berlusconi, non è solo mia. Lei è stato votato da ammiratori, ma anche da due altri tipi di elettori, oltre a coloro che hanno espresso, semplicemente e comprensibilmente, la priorità di mandare a casa la sinistra: quelli che la ritengono capace di mettere più soldi nelle loro tasche grazie ad un boom economico del Paese; chi, oltre a questo, la vede come un bravo allenatore che ci farà vincere il campionato europeo e mondiale. Io penso di rappresentare, con le mie opinioni, queste due aspettative collegate. Sappia che ci rendiamo conto di quanto l’impresa sarà difficile. Deve avviare la riforma competitiva in un momento di ciclo basso dell’economia globale, con la complicazione di una tendenza recessiva nell’eurozona. Le istituzioni italiane sono state disegnate in modo “orizzontale”, ai tempi (1947) in cui i comunisti e i democristiani non volevano che l’uno o l’altro potessero prendere troppo potere, e per questo non ha strumenti efficienti, “verticali”, di governo: timoniere che deve costruirsi il timone. Ha un progetto futurizzante che richiede un’iniezione straordinaria di pensiero tecnico nelle funzioni di governo, ma deve fare i conti con una cultura e prassi della politica dove questa è ancora considerata superiore alla tecnica stessa. Appunto, non sarà facile. Ma in molti pensiamo che ce la possa fare, nonostante difficoltà prevedibili ed impreviste, se si manterrà intatto il contratto emotivo tra lei e quegli italiani che la vedono strumento della rinascita competitiva del Paese. In tal senso non c’è bisogno di  auguri, un “debolismo”, ma di un “patto tra forti”. Da una parte,  italiani che hanno successo nel loro lavoro, che tirano su famiglie e risolvono i piccoli e grandi problemi della vita senza tanti lamenti e con risorse proprie, pronti a fare la loro parte per migliorare attraverso il progresso del sistema intero. Che chiamano un’Italia più grande. Dall’altra, un leader con la capacità e la missione di renderla tale. Noi ci offriamo al suo disegno, lei si offra al nostro.    

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