In un’economia globale dove la conoscenza scientifica e tecnologica è uno dei fattori principali del successo tutti i paesi sono in competizione per mantenere, attrarre e far fruttare i cervelli, oltre che formarne tanti e sempre migliori. Lo scorso anno un rapporto allarmato del consolato francese in California rilevava solo in quell’area la presenza di ben 10mila laureati e studenti francesi che stavano cercando una specializzazione universitaria americana, la maggior parte con l’intenzione di restare a lavorare nell’industria tecnologica e nei laboratori statunitensi. Non ho trovato dati al riguardo della Germania, ma alcune telefonate a colleghi di lì mi hanno convinto che la fuga dei cervelli è un problema crescente anche per loro. Nel Regno Unito, il governo Blair sta mettendo a punto un piano urgente per limitarla e tentare di invertirla. E l’Italia? E’ il paese che esporta più cervelli in America. E i più restano lì. Un docente emigrato (lo sono anch’io, part-time) spiega: dove trovo in Italia salari così buoni, un sistema flessibile, la possibilità di fare carriere accademiche trasparenti basate sul merito nonchè di lavorare a stretto contatto con le industrie che finanziano bene, le fondazioni private e pubbliche ancor meglio, e di poter usare servizi perfettamenti organizati? Ma è uno studente italiano di bioingegneria che sul volo per Atlanta indica con semplicità e chiarezza il problema e la soluzione: tornerei in Italia volentieri se diventasse migliore dell’America, almeno sul piano universitario.
Come impostare una strada oggi che nel futuro ci porti a competere per qualità con le università americane? Va subito detto che la nostra università totalmente statalizzata ha, mediamente, ottime capacità individuali di ricerca ed insegnamento, ma queste vengono depresse o annullate da un’organizzazione che non permette loro di svilupparsi in tutta l’eccellenza che potrebbero esprimere. Le carriere sono centralizzate, lunghe e frustranti, anche perché spesso poco trasparenti. Soprattutto i soldi per salari e ricerca sono insufficienti, da quarto mondo. Riformare dall’interno il sistema universitario italiano pubblico mi sembra impresa difficile, tentata e fallita più volte negli ultimi trent’anni. Lo si può, invece, costringere alla riforma di efficienza competitiva dall’esterno, permettendo che si formino nuove università private in concorrenza con quelle statali. Per ottenere due obiettivi: (a) intanto avere entro cinque – otto anni almeno una decina di università private (sperabilmente politecnici) che, pur ancora in sviluppo iniziale, già saranno in grado di operare a standard di livello assoluto, capaci di attrarre i migliori cervelli del mondo e di farli operare a stretto contatto con le industrie; (b) stimolare, per paragone competitivo, l’evoluzione del sistema pubblico e così migliorare le prestazioni complessive del sistema italiano.
Due punti critici. Primo, aprire la strada per nuove università private costerebbe poco al bilancio pubblico. Lo Stato dovrebbe solo togliere tutte quelle regole che attualmente impediscono la loro costruzione (l’inutile valore legale della laurea, liberalizzazione delle carriere docenti, ecc.). Poi dovrebbe rendere utilizzabile allo studente italiano la tassa per l’educazione superiore che attualmente va alla fiscalità generale. O non gliela fa pagare in caso di scelta privata oppure gliela torna in forma di bonus. La cifra che manca se la paga lo studente. Non ha i soldi? Una legge ad hoc dovrebbe regolare il prestito d'onore, ovvero permettere agli studenti delle private, dove si paga salato l’accesso, di indebitarsi e poi tornare il denaro ad una banca in uno o due decenni. Una sorta di mutuo. Ma la misura più importante sarebbe quella di liberalizzare il sistema delle fondazioni private e la possibilità che queste possano fare donazioni per la ricerca. Da integrare con la facoltà per ogni cittadino di indirizzare il 4% dell’imponibile all’istituto di ricerca e formazione che vuole. Infine, ci vorrebbe la detassazione degli utili di impresa reinvestiti in ricerca e formazione. Con queste semplici misure il sistema di università private potrebbe decollare. Non servirebbe altro che l’imprenditore scientifico, ma ce ne sono.
Secondo, perché un’università deve essere privata per funzionare meglio? Non è una regola universale. Ma l’enfasi sul privato è necessario in Italia dove "pubblico" vuol dire inefficienza. Il punto è quello di riuscire ad introdurre nel sistema accademico e di ricerca la concorrenza che stimola la competizione per qualità ed efficienza. Il buon cervello lo paghi. E per pagarlo bene l’univeristà deve anche essere un’impresa. Che vende servizi al mercato, che prende royalties dai brevetti che inventa, che gestisce, come fondo finanziario, le donazioni per farle fruttare meglio al servizio di stufdenti e ricercatori. Inoltre, per un po’ copieremo gli americani, ma dopo dovremo cercare di fare perfino meglio. E la quotazione in Borsa di università private che competono per l’eccellenza mondiale mi sembra un’innovazione da esplorare molto seriamente. Non me la vedo l’università pubblica fare queste cose. Così come non me la vedo costruire campus universitari integrati con parchi tecnologici futurizzanti. Magari riutilizzando i nostri bei castelli che giacciono in rovina, proprietà pubblica. E se vogliamo diventare tra dieci-quindici anni il paese che ospita il migliore sistema universitario del pianeta, e che quindi può attrarre i cervelli e imprenditori più brillanti, la strada più veloce è quella detta, sul piano delle punte di qualità. E se vien fuori un Bill Gates che in cantina ti inventa. Microsoft speriamo che non ci sarà più un Visco che gli tassi anche l’idea geniale. Ma questa è un’altra storia. Costruiamo, intanto, la prima.