La scorsa settimana il mercato finanziario globale è stato scosso da una particolare concentrazione di notizie negative: crisi finanziaria in Turchia; timori che questa riverberi su paesi emergenti finanziariamente instabili, quali la Russia e l’Argentina; la previsione di perdite future, e non solo di riduzione dei profitti, da parte di Motorola, secondo produttore mondiale di telefonini; la riduzione della fiducia sul debito del Giappone; settimana nera per il Nasdaq e tutte le altre Borse che quotano titoli tecnologici; perdurare, nel gennaio 2001, di un’inflazione tendenziale nell’eurozona sul 3%; aumento dell’inflazione anche negli Stati Unititi; timori espliciti che la crescita europea soffrirà più del previsto a causa del rallentamento della locomotiva americana. Il clima di tensione è ben rappresentato da quanto successo al Nasdaq venerdì scorso: poco prima della chiusura delle contrattazioni l’indice stava cadendo del 3%, ma una semplice voce che la Fed avrebbe ridotto i tassi nella settimana entrante ha fatto rimbalzare di quasi il 4% l’indice, in pochi minuti. Quando c’è questo tipo di volatilità è evidente che il mercato è sotto stress.
L’eccesso di nervosismo negli operatori finanziari non va sottostimato. Può portare, se non contenuto, ad una crisi di sfiducia generale, anche in assenza di vere e proprie catastrofi reali, che si realizza come riduzione o congelamento dei flussi di capitale che sono il sangue dell’economia. Un tale fenomeno finanziario potrebbe portare in recessione brutale l’economia reale. Quindi è d’interesse per tutti noi valutare se qualcosa e qualcuno saprà ridare fiducia al mercato e tranquillizzarlo. Va aggiunto che in un’economia globale quello che succede in Giappone o in Turchia o sul Nasdaq o in Indonesia – a proposito, anche questo paese sta ricadendo nella crisi finanziaria – ha effetti praticamente immediati anche in Europa ed in Italia.
Quali precedenti abbiamo in materia? L’ultimo è stato quello relativo alla crisi finanziaria in Asia del 1998, combinata con quella russa. In pochi giorni il capitale si ritirò dai paesi emergenti, dove era andato troppo e troppo allegramente, e la sfiducia contaminò tutto il circuito finanziario mondiale. Ma la tempesta fu breve perché il Fondo monetario internazionale (Fmi) intervenne prontamente inserendo liquidità nei paesi vittime del deflusso di capitale. Soprattutto, la Fed ridusse moltissimo i tassi del dollaro e inondò di liquidità il mercato interno americano. Così oliata, la locomotiva statunitense si mise a correre come non mai (e poi generò la bolla che ora si sta sgonfiando). Il mercato si convinse che ciò avrebbe rimesso a posto a tutto il mondo e riprese l’ottimismo. In sintesi, la crisi fu evitata grazie ad una mossa tempestiva e forte da parte dell’America e del Fmi (che ne è in buona parte uno strumento). E’ interessante notare che il mercato reagì bene non perché diventarono di colpo migliori le notizie o i fatti relativi all’economia reale - che erano pessimi, il 60% dei paesi del mercato globale in tendenza recessiva - ma in quanto percepì che qualcuno aveva preso in mano la situazione, con i mezzi e la determinazione per governarla ed indirizzarla verso un lieto fine. Da questo caso – e da tanti altri, per esempio quello della crisi messicana del 1995 – emerge che l’umore del mercato globale, e quindi l’orientamento dei flussi di capitale, è influenzato principalmente da quello che succede in America e da come questa si prende carico dei problemi mondiali.
Il rischio di crisi di fiducia oggi esistente è grave proprio perché è l’America ad essere l’epicentro del ciclo recessivo. Inoltre, il Fondo monetario è sotto accusa perché, imponendo politiche restrittive ai paesi a cui presta denaro, alla fine crea le cause della loro recessione o crisi finanziaria, come successo per la Turchia e l’Argentina. Il Wall Street Journal, l’organo principe del mercato globale, ha chiesto qualche giorno fa la testa del direttore operativo del Fmi, Stanley Fischer. Anche Alan Greenspan, presidente della Fed, divinizzato dagli operatori del mercato, è ora sotto accusa di poca lucidità: aveva annunciato un “atterraggio morbido” dell’economia americana e ora si prepara a gestire una recessione i cui termini non è ancora in grado di chiarire. Se si instaurasse nel mercato l’idea che la conduzione americana è confusa e la situazione interna fuori controllo, allora certamente ci sarebbe la crisi. E questa sarebbe globale e veramente brutta. Ma dobbiamo veramente temere questo scenario?
No. In realtà la Fed, dopo un attimo di smarrimento (due mesi di ritardo nel ridurre i tassi) ha ripreso il controllo della situazione e certamente farà le mosse che servono al momento giusto. L’Amministrazione Bush appare ben consapevole dell’emergenza e sta agendo, celermente, di conseguenza sia sul piano interno (stimolazioni fiscali) sia su quello esterno: Bush ha assicurato che l’America sosterrà la Turchia. Il Fondo monetario certamente ha un metodo che urla vendetta, ma, alla fine, è l’unico prestatore di ultima istanza: quello che mette i soldi nei luoghi dove questi volano via. E lo sta facendo. In sintesi, anche questa volta la crisi di fiducia sarà evitata ed il mercato riprenderà l’ottimismo, solo un po’ più lentamente che in altre occasioni (due o tre mesi), perchè il sistema americano reggerà. Il rimbalzo già si vede all’orizzonte. Ma, quando la paura sarà passata, dovremo riflettere su quanto sia stabile un’economia mondiale che dipende da una sola locomotiva, l’Europa sempre in rimessa.