Per il lettore non è certamente facile in questi giorni riuscire a capire se l’Italia vada bene o male, e le sue prospettive. L’Istat, pochi giorni fa, ha dichiarato che il Pil italiano è cresciuto, nel 2000, del 2,8%, esattamente il doppio dell’anno precedente. La Banca d’Italia, nei mesi scorsi, aveva previsto una crescita più vicina al 2,5%, in polemica con il ministro del Tesoro, Visco, che insisteva nel tenere la previsione originaria di un incremento del Pil sul 3%. Il conflitto tra l’autorità monetaria ed il governo dell’Ulivo continua sui temi correnti: Antonio Fazio e l’Unione Europea temono che i conti dello Stato siano sbilanciati per eccesso della spesa pubblica. La seconda ha approvato con riserva e rampogne gli indirizzi dell’ultima finanziaria. Ma il governo sostiene che i conti sono a posto. Il governatore della Banca d’Italia raccomanda con linguaggio d’urgenza la riforma delle pensioni (quelle future, non la modifica dei diritti acquisiti) e invoca più flessibilità nei contratti di lavoro. Il governo nega che la situazione sia tale da prendere misure d’emergenza. Appunto, anche senza citare l’ovvio ping-pong tra le coalizioni politiche in fase di campagna elettorale, la confusione è notevole. Vediamo se è possibile chiarire quanto l’Italia vada bene o male. La Banca d’Italia, fino a novembre, aveva ragione nel prevedere un Pil di molto inferiore a quello promesso dal governo. Nel mese di dicembre c’è stato un picco di crescita di circa lo 0,8%. Ma è stata un’ anomalia. Forse - non ho ancora avuto di vedere i dati finali - le regalie della finanziaria hanno pompato per un attimo i consumi, tendenzialmente quasi piatti. Se è successo così, allora potremmo ipotizzare che il governo abbia voluto drogare, all’ultimo momento, il dato della crescita per fare bella figura a ridosso delle elezioni. Al prezzo di uno sbilanciamento dei conti pubblici che poi dovrà essere ripagato, con sottrazioni allo sviluppo. Questo potrebbe spiegare il mistero.
Ma per il lettore e più importante sapere che nel 2000 l’Italia ha confermato la tendenza degli anni precedenti: cresce meno della media degli altri paesi dell’eurozona. Anche se accettassimo come realistico, e non drogato, il dato sul Pil, comunque questo sarebbe di circa mezzo punto inferiore a quanto gli altri europei hanno saputo fare l’anno scorso. Quindi non andiamo così bene. Nell’ultimo decennio siamo cresciuti la metà del resto d’Europa e solo un quarto dell’America. Siamo i penultimi nell’eurozona per capacità di creazione di ricchezza. Evidentemente c’è una malattia economica strutturale dalla quale non siamo guariti anche perché mai curati.
Per entrare nei parametri dell’euro, infatti, il governo ulivista ha alzato la pressione fiscale, già storicamente alta, invece di tagliare la spesa e favorire la crescita. Ciò ha peggiorato le condizioni di competitività delle nostre imprese e ridotto l’incentivo per nuovi investimenti. Tale scelta ha depresso le capacità interne di crescita. Ed infatti il Pil si è incrementato solo grazie alle esportazioni, favorite dalla svalutazione dell’euro. Ma, attenzione, le nostre imprese – anche quelle del mitico nordest – hanno perso quote di mercato nell’area europea. Questo vuol dire che a parità di valuta non riusciamo ad essere più tanto concorrenziali. Siamo andati meglio con l’export verso l’area del dollaro e nel mercato globale, grazie alla capacità indomita degli imprenditori di inventarsi nuovi spazi. Ma il segnale non è buono: quando gli altri corrono, noi riusciamo solo a camminare perché calziamo stivali troppo pesanti.
In sintesi, e cercando di essere il più oggettivi possibile, non possiamo certamente dire che il Paese sia in una situazione catastrofica. Ma tutti i dati mostrano senza ombra di dubbio che sono in atto una crisi competitiva endemica ed una, conseguente, lenta deindustrializzazione. E’ una situazione difficilissima, non tanto da interpretare, ma da risolvere. La crisi competitiva endemica prepara un’emergenza futura, certa, ma non la segnala con un’evidenza tale, nel presente, da concentrare il consenso sui modi per invertirla. I sostenitori del modello politico attuale dicono, appunto, che non è un disastro e che quindi la situazione potrà migliorare con cambiamenti graduali, senza scossoni. Sulla base degli stessi dati, altri possono sostenere che stiamo andando verso il baratro e che per evitarlo dobbiamo attuare politiche di riforma con spirito d’emergenza. E che non abbiamo molto tempo davanti, come insiste Fazio, come ci raccomanda il Fondo monetario internazionale e, pur entro maggiori vincoli di cortesia diplomatica, la stessa Commissione Europea. Io sono in totale accordo con la seconda visione perché la osservo nei dati. Ma mi rendo conto che se uno non fa di mestiere scenari economici e simili, difficilmente può prendere posizioni nette proprio per la doppia lettura che si può fare al riguardo della situazione corrente.
Quindi vi raccomando un modo più empirico per sciogliere il nodo. Calcolate quanti soldi avevate, annualmente, cinque anni fa e quante cose riuscivate a comprare e a risparmiare. Trasformate il conto in percentuali, comparatele con la vostra situazione di oggi e su questa base decidete. Molti di voi troveranno che lo scenario di decadenza è già al lavoro da tempo. Verifichiamolo insieme: mandate i vostri calcoli o sensazioni a www.carlopelanda.com.